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J’accusespère, J’accuse et j’espère

J’accusespère, J’accuse et j’espère

di Francesca Mazzotta*

Se la speranza è l’ultima a morire, questo proverbio deve valere a maggior ragione il primo dell’anno. Almeno il primo dell’anno, nel nodo di passaggio fragile, quasi di placenta, tra il compimento di un respiro e la nuova inalazione di un’aria ancora sconosciuta. Ci vuole coraggio in questo momento, in generale e forse da sempre, a maggior ragione qui e ora, tra il 2 e il 3 di questo nostro decennio. Forse il coraggio è proporzionale alla paura che guida l’occhio speranzoso, soprattutto di chi ancora spera perché ancora deve.
Col massimo sforzo di immaginazione e generalizzando il più possibile, l’occhio è in disparte e bene aperto, siede in un angolo semibuio, al margine di uno spazio più chiassoso e illuminato, spaccato da qualche risata, un pianto ora di gioia ora di ubriachezza, un petardo. L’occhio è malinconico, fissa il buio fuori tastandone la neve invisibile. Ha smesso di farsi domande. Torneranno domani.
Abbiamo desideri sfuocati, abbiamo propositi troppo precisi. Smettiamola di parlare, di “investire” nel senso più in voga del termine. Che sia semmai un investimento di energie del pensiero e del cuore, o un’investitura come la intendevano gli antichi cantori, cioè per creare qualcosa di proprio e insieme di tutti. Cosa stiamo creando? Qual è il nostro pensiero? Com’è. Riusciamo a descriverlo senza usare aggettivi, come se fosse una creatura primordiale, un animale sacro che dobbiamo proteggere e che ogni componente del popolo composito della nostra mente, il popolo più contraddittorio e fragile di tutti i popoli del mondo, venera da sempre. Che verso fa, il nostro pensiero? Com’è il suo volume, alto, basso, graduale, il suo ritmo? È in quarti, o un valzer? È trap, è jazz o è un pensiero folk-electrodance?
Qual è la stagione più propizia per la sua fioritura?
Arrivi a trent’anni e puoi dire che senza alcun dubbio ami stare al mondo, a questo mondo mentre lo guardi abbrustolire e svanire, sbriciolarsi sotto l'effetto di legiferazioni che non ti hanno mai, mai, mai davvero protetto né preso in seria considerazione.
Da un vagone silenzioso diretto a Firenze, continui a sperare in una politica che favorisca anche i cervelli che non fuggono, anche i mezzi cervelli e i terzi di cervello onesti che tutti i giorni lottano e sudano per rimanere in Italia, sogni un paese con il triplo dei fondi per la ricerca e la produzione di area umanistica, dove, già da molto prima dell’ultima riforma, non si debba tutte le volte spiegare la differenza tra laurea, dottorato, post Doc e assegno di ricerca, dove i trentenni possano posizionare il primo mattone sulla radice che hanno liberamente scelto di piantare proprio lì, in quel punto, perché in quel punto hanno il desiderio e il diritto di farlo. Non ci accorgiamo che l’onirico e ogni zona legata al sogno sta scivolando via, troppo in là rispetto alla regione del concretamente possibile, nello stesso momento in cui il “sognatore” diventa la categoria sociale strana, un po’ problematica, irrazionale, comunque sospetta perché non abbastanza lineare/catalogabile. Va monitorata, non c’è mica da fidarsi, forse va arginata senza dare nell’occhio, magari consigliargli uno psicologo? Temporaneamente, finché non passa. Ah, il sognatore è donna? … carina? Può cominciare a pregare, meglio sarebbe che scappasse immediatamente, lontano.
Chi sa guardare gli altri e il tanto buono e il tanto bello che restano, tende a bere dal calice mezzo pieno. Ma non è forse anche questa una cattiva abitudine? Una coazione a resistere che si è calcificata a forza di elemosinare uno sguardo dalle politiche, finché a stento ti guardano col binocolo, a forza di giustificarti di fronte a chi sostiene che non lavori ma “studi” (non hai mica orari fissi), di fronte a chi appena dici “poesia” ti risponde con somme condoglianze oppure cominciando a citare alcuni “versi di Alex Britti”, a forza di dovere ripassare il copione dei luoghi comuni per dimostrare che in qualche modo sei una persona normale e non un serial killer. Le persone che ogni giorno lottano per restare qui, nel gorgo di queste frasi violente e che ogni volta perdoni perché il male è alla radice, non nelle loro bocche, le persone che provano a stare in un perimetro che abbia una forma… impossibile da spiegare: non c’è una geometria, una forma distinguibile. Non c’è un riconoscimento del nostro lavoro, come fa a esserci un perimetro? Come può esistere una descrizione attendibile o quantomeno chiara che esaurisca i tre quattro lavori che facciamo ogni giorno, la passione che ci guida dai primi anni di scuola, le pubblicazioni/presentazioni/interventi “di nicchia” (tradotto: volontariato, “militanza”), le porte in faccia, ovvero il sacrificio giornaliero di salvaguardare la letteratura, la poesia e l’arte nel senso più eterogeneo ma ricco, importantissimo. Non c’è una forma: uno scarabocchio nevrastenico è forse l’iconografia più adatta a rappresentare il nostro contributo e il nostro ritorno rispetto a quanto dato, pubblicato e costruito, non “reso monetizzabile”, costruito col pensiero.
Ripenso al cartello di stamattina, che ho notato a ridosso di una casa lungo una salita di un piccolo borgo tra i monti bergamaschi, con un totale di forse cento abitanti, “Non gettate i rifiuti, la cura del nostro paese dipende da tutti noi”. Penso allora a Milano, a Firenze, alle file per i locali e alle “K” come il ritornello di una cicala impazzita, refrain utilissimo a misurare la riuscita degli aperitivi aziendali (più alto è il numero davanti alla lettera più è riuscito l’ape), penso agli sguardi degli amici in cui non mi riconosco più, alla parola “fatturato” e “rogito”, mentre mi rimpicciolisco, qualcuno mi fa notare che agli atti ho un dottorato, una decina di pubblicazioni “di fascia A”, tre libri pubblicati e prima che abbia finito di entusiasmarsi sto già sussurrando “ma di poesia” e indossando un sorriso che sembra ironico o superiore o borioso mentre dovrebbe risultare stanco e fiero, anche, stanco ma anche pronto a contribuire alla nascita di quel tutti noi del cartello, che non siamo pochi. Siamo molti e veri, e meritiamo lo spazio giusto d’espressione e vita, di edificazione, partecipazione attiva e relativa fioritura di respiro, di autonomia e libertà di muoversi e scegliere, ovvero gioire! (Anche gli scrittori, anche i ricercatori e i poeti sanno arcuare la bocca a mo’ di risata. Sì!)
Mentre a Oriente e Occidente, al Sud che rimane respirabile e al Nord ormai tropicalizzato, assistiamo al consumarsi del cuore del pianeta come fosse l’ultimo mozzicone fumato al semibuio dell’ultimo giorno dell’anno, vi prego, non smettiamo di credere in un paese fertile per il pensiero libero, in una cultura e diciamo pure un’Humanitas premiata come un lavoro degno e fondamentale, e non un intrattenimento, non il contorno d’hummus per l’hamburger veg. Moltissima vera cultura non brilla nelle sale del museo pluricentenario dei Duomi e delle rocche, ce n’è molta altra, giovane, brillante di luce propria, attenta e soprattutto di grande valore.
Non smettiamo di sognare una società meno giudicante e più spontaneamente luminosa, finalmente consapevole del dovere di proteggere e coinvolgere tutte le parti in causa. Non scordiamo i libri, non sono gremlins, non si trasformano in mostri, di notte, mentre dormiamo. Leggiamo.
E poi, soprattutto: cominciamo a fare.
Per cominciare, partirei dal brusio di queste interferenze: spegnete tutto.
Apriamo gli occhi.
Che tempo fa?

*Francesca Mazzotta (Firenze, '92) si dedica alla scrittura per lavoro e per passione. Il suo terzo libro di poesia, “Per non sparire”, uscirà il prossimo mese.

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