Sarà che tra la fine del vecchio anno e l’inizio del nuovo è prevalsa la voglia di quella normalità che la pandemia si ostina ancora a negarci dopo un purgatorio di trentasei mesi. Sarà che il desiderio della perduta socialità si è fatto sentire come un’urgenza andata talvolta fuori controllo e degenerata in una forma di diffusa e allegra ricreazione. Quello che è certo è che il dibattito sull’ormai prossimo congresso del Pd, salvo alcuni talk show televisivi tutti eguali nella loro ripetitività quasi come quelli ospitati dalla carta stampata, ha finito con l’assumere la forma di allegra tregua vacanziera.
Del resto non si poteva certo pretendere che tra Natale e la Befana i resti del Pd si intristissero andando alla ricerca della loro epifania non avendolo fatto o avendolo fatto in maniera confusa e poco convinta nei tre mesi passati dall’ultimo capitombolo del 25 settembre a oggi. Com’era prevedibile e per alcuni aspetti scontato le sezioni (ma dove sono oltre che in qualche elenco delle federazioni?) sono rimaste deserte e così i circoli e i luoghi dove ci si sarebbe aspettati un lampo di interesse, vivacità, curiosità, qualche interrogativo su un futuro che è già presente. E invece niente.
Il Pd è rimasto inchiodato alle stesse facce e alle stesse argomentazioni ripetute nelle dotte discussioni di intellettuali che non devono aver mai visto una sezione di partito, meno che mai se collocata in quella periferia dove vivono i “riottosi” che non sono andati a votare, e nelle tediose dichiarazioni di vecchi arnesi della politica che poi sono gli stessi che hanno portato il Pdi nella fase terminale di malattia dalla quale ora dicono di volerlo tirar fuori.
Ma ciò che risulta incredibile e inspiegabile è che si parla di una forza politica che fino a tre anni fa era il secondo partito italiano oltre la soglia del 20 per cento contro il quale i suoi dirigenti (e se ne sono avvicendati tanti) si sono mossi come animati da una irragionevole vis destruendi, per dire un metodo così logoro e privo di qualsiasi prospettiva al punto da rendere quasi normale la fine del partito come premessa sola e unica per una sua rifondazione. Un tentativo che qualcuno ha miseramente tradotto in una gara sul cambio del nome quasi che l’identità di un partito stia in un una trovata pubblicitaria o in qualche acronimo.
Ora al di là dei nominalismi c’è chi la vede come una soluzione, una strada percorribile, quasi un bandolo da dove cominciare, ferma restando l’urgenza di definire un progetto di partito che -fatto non trascurabile- è l’ultima occasione di andare a riprendere il dialogo con chi ha chiuso con la politica e con la sinistra. Sarebbe un bel sottosopra che qualcuno sta prendendo in considerazione. Anche se non manca chi lo vede come un vecchio regolamento di conti, uno scherzo di quell’insondabile destino che talvolta s’intrufola anche nei corridoi della politica. I
n fondo c’è chi pensa che se dalla carta geografica della politica italiana sono scomparsi il Psi di Nenni, il Psdi Saragat, il Pri di La Malfa (Ugo), il Pli di Malagodi (per non parlare del Partito d’Azione) nessuno verserebbe una lacrima se dalle ceneri dell’attuale Pd sorgesse un movimento nuovo, capace di parlare in una lingua da sinistra moderna.