Agenzia Giornalistica
direttore Paolo Pagliaro

C’è ancora spazio
per un partito progressista

di Marcello Bianchi

Il confuso dibattito sulla ricostruzione del Partito Democratico, nelle sedi politiche così come negli interventi dei vari intellettuali e commentatori, continua a girare a vuoto tra ovvietà spacciate per “valori” e vane ricerche di un fondamento identitario. Più utile sarebbe se politici e intellettuali interessati a salvare un ruolo per un partito progressista partissero dai problemi strutturali che abbiamo davanti e si sforzassero di delineare una visione su un modo progressista di affrontarli.
Il primo problema è quello dell’efficacia della democrazia rappresentativa. La grande battaglia condotta dai “democratici” contro i conservatori, e in parte contro gli stessi liberali, oramai un secolo fa, fu proprio quella di costruire una democrazia a rappresentanza diffusa e partecipata che fosse al contempo efficace e incisiva nel promuovere il progresso economico e sociale. Oggi quel modello è in crisi nella dimensione rappresentativa, come dimostrato dall’evaporare delle strutture organizzative e del radicamento territoriale dei partiti, dall’assenteismo elettorale e dalla volatilità emotiva del consenso; ma è in crisi anche la sua efficacia decisionale, come dimostrato dalla progressiva emarginazione del Parlamento dai processi di indirizzo e di controllo dell’azione di governo, dalla trasformazione dell’equilibrio organico dei poteri costituzionali in una ragnatela di veti e di ricerca di supremazia, dalla difficoltà di realizzare programmi di governo, al di là della gestione delle emergenze e del tentativo di salvaguardare un minimo di equilibrio di bilancio.
A fronte di questa crisi, che coinvolge la maggior parte dei paesi occidentali, i conservatori possono rifugiarsi nel riferimento al “sentimento della nazione” e far leva sulla capacità di un leader carismatico di coglierlo e interpretarlo. È ovvio che questa strada non è percorribile da un partito progressista che basa la sua base costitutiva non in un romantico, quanto indefinito, concetto di nazione, ma in sistema organizzato di istituzioni sociali che hanno bisogno di chiari meccanismi identificativi e di relazioni. Senza un sistema solido di istituzioni di rappresentanza un partito progressista è sradicato dalla società che deve rappresentare e procede senza bussola, ripiegando sull’affannoso tentativo di interpretare i disagi o di inseguire l’incessante richiesta di nuovi diritti. È per questo che un partito progressista non può rifugiarsi nella sterile difesa dello status quo istituzionale e costituzionale, che sarà pure “il più bello del mondo” ma che attualmente sta favorendo uno scivolamento della democrazia rappresentativa verso forme sudamericane di populismi leaderistici inefficienti. Al contrario, il partito progressista dovrebbe farsi promotore di una chiara proposta di ridisegno costituzionale degli equilibri tra i poteri e di un sistema elettorale coerente con questo nuovo contesto. Questo comporta affrontare temi scomodi per il tradizionale background culturale e di consenso del PD:  una riforma dell’ordine giudiziario che riduca la sua pretesa di farsi “potere” e ne rafforzi la responsabilità, rimettendo in discussione, per esempio, lo “scudo” dell’obbligatorietà dell’azione penale; il rafforzamento della governabilità, anche superando l’attuale bicameralismo, “perfetto” solo nell’inceppare l’efficienza del Parlamento; una riconsiderazione delle forme di democrazia diretta, al fine di valorizzarne la funzione complementare e di stimolo alle forme mediate dalla rappresentanza.
In questa prospettiva andrebbe ripensato in particolare il rapporto tra centro e periferia: il radicamento territoriale del partito progressista non è ricostruibile, venuto meno il collante ideologico, senza un sistema di istituzioni locali dotate di un adeguato grado di autonomia e di un esteso campo di competenze. Il federalismo, che fu, quello sì, valore fondante della sinistra democratica, deve essere recuperato come modello istituzionale di base, peraltro molto più coerente rispetto al centralismo nazionale, con il processo di integrazione europea. Non è probabilmente un caso che l’unico grande paese europeo che ancora vede una certa solidità del sistema istituzionale, e in questo uno stato di salute quantomeno non agonizzante di un partito progressista, sia la Germania federale, che è stata in grado di gestire un problema di divario territoriale, quello con i territori dell’ex Germania comunista, non certo meno grave di quello del mezzogiorno in Italia. Federalismo e coesione territoriale non sono necessariamente in conflitto e dovrebbe essere proprio il partito progressista a indicare le vie di una loro positiva interazione.
Un secondo problema strutturale che il partito progressista dovrebbe affrontare è quello della crescita economica. La stagnazione ultradecennale che caratterizza il sistema economico italiano è l’ostacolo più rilevante al progresso delle condizioni sociali ed economiche che dovrebbe costituire il principale obiettivo del partito progressista. Sembra necessario superare una visione sostanzialmente statica del contesto economico, basata prevalentemente su una logica redistributiva e protettiva che punta esclusivamente alla riduzione delle disuguaglianze relative e del rischio di povertà. Salario minimo e reddito di cittadinanza, così come la sacralizzazione dell’attuale sistema di progressività dell’imposizione sui redditi che grava oggi quasi esclusivamente su lavoro e impresa, rischiano di essere battaglie di retroguardia che cristallizzano, al più con qualche blando correttivo, l’attuale situazione stagnante. Neanche le nostalgie per lo stato imprenditore e investitore o il ricorso all’inossidabile quanto inafferrabile mito della politica industriale possono bastare per disegnare una credibile politica di crescita economica.
Occorre un approccio che superi la gabbia mortifera “più regole e più tasse” con uno sguardo innovativo anche verso la finanza, troppo spesso considerata una mera sovrastruttura di speculazione che grava sull’economia reale. Eppure, solo la finanza è in grado di mobilitare le risorse necessarie per proiettarsi nel futuro, l’orizzonte inevitabile di una prospettiva di crescita economica. Lo sviluppo di un mercato dei capitali in grado di integrarsi nei mercati finanziari europei e globali e di competere con questi nell’attrazione del risparmio nazionale e internazionale dovrebbe essere un punto chiave dell’agenda politica di un partito progressista. In questa prospettiva, un problema largamente irrisolto è quello dello sviluppo di forme di intermediazione finanziaria orientata al lungo periodo, come i fondi pensione, i grandi assenti nel panorama finanziario italiano. Si potrebbero definire politiche massicce di incentivazione alla canalizzazione del risparmio verso fondi pensione di varia natura: aziendali, di settore, di territorio e generalisti, e offrire loro una più ampia libertà nelle scelte d’investimento. Altro capitolo, abbandonato dalla cultura progressista, è quello della democrazia economica, strettamente legato allo sviluppo della finanza in funzione della crescita economica. La possibilità di creare fondi collettivi di investimento dei lavoratori, definendo un quadro fiscale incentivante e un quadro normativo che ne faciliti l’esercizio collettivo dei diritti, avrebbe l’effetto di aumentare il potere di incidere sulle scelte aziendali e di poter partecipare alla creazione di ricchezza delle imprese. Sarebbe anche l’occasione per smuovere il mondo sindacale dall’attuale apatia offrendo un campo nuovo per una politica contrattuale, funzionale a legare la crescita di produttività al miglioramento delle condizioni economiche e patrimoniali dei lavoratori.
La lista dei problemi strutturali da affrontare non si esaurisce certo qui. Il cambiamento climatico, il disgregarsi dell’ordine internazionale, le opportunità ma anche i rischi della trasformazione digitale e dell’intelligenza artificiale, il mutamento delle esigenze di servizi sociali dovuto ai cambiamenti demografici, sono alcune tra le altre emergenze che sfidano una visione progressista e ne sollecitano la capacità di risposta. Anche di fronte a queste è necessario uno spirito nuovo ma soprattutto una concretezza di analisi che individui una direzione chiara su cui muoversi, dove a una giusta intransigenza sui principi corrisponda una flessibilità pragmatica nella scelta degli strumenti. Per fare un esempio, il principio della università delle tutele, che va salvaguardato soprattutto nei campi dell’istruzione e della salute, non può esaurirsi nella soluzione statalista, di cui sono evidenti l’inefficienza e lo squilibrio territoriale e sociale, ma al contrario può essere meglio perseguito valorizzando la sussidiarietà e l’articolazione delle funzioni tra le varie istituzioni sociali e di mercato.
La cultura progressista, che ha avuto un ruolo determinante nel creare la democrazia rappresentativa, nello sviluppare una dimensione sociale della crescita economica, nel far maturare una sensibilità ai problemi ambientali, deve scuotersi dal suo stato regressivo e depressivo e recuperare la sua capacità di “parlare al mondo” e di guidare risposte innovative. L’attuale ripiegamento della destra su una visione nazional-populista apre una prateria per chi voglia e sappia interpretare e orientare una moderna cultura di mercato sensibile alle istanze sociali, evitando il richiamo di nostalgie stataliste e di ingenue utopie da decrescita felice.  

(da http://www.isril.it/) 

 

 

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