È difficile capire perché il PD subisca una perdita accelerata di consensi elettorali (certificata dalle ultime elezioni e dai successivi sondaggi), nonostante sia in corso il fatto più politicamente importante per un partito: il suo congresso. L’occasione andrebbe colta per ridefinire la sua identità valoriale, le sue piattaforme programmatiche, per riattivare la partecipazione degli iscritti e dei simpatizzanti, per sottoporre a revisioni la sua governance democratica. Il momento, peraltro, sarebbe quanto mai propizio perché le sfide che si aprono al Paese, alle prese con l’attuazione del PNRR e con le incertezze del quadro macroeconomico, concordano nel segnalare una evoluzione degli equilibri sociali, a danno soprattutto del lavoro, il fattore produttivo tradizionalmente rappresentato dalla sinistra. Un processo, a dire il vero, in atto da tempo, con una evoluzione del sistema capitalistico, trainato dalla finanza e dalla tecnica, che ha tolto progressiva efficacia alle costruzioni sociali create nel corso del processo di industrializzazione: lo stato sociale e una redistribuzione del maggiore reddito prodotto a favore di maggiore benessere diffuso.
Queste condizioni di sfavore del lavoro sono state il lievito di un populismo attrattivo per le fasce più deboli della popolazione che sono uscite dal perimetro della sinistra tradizionale. Come il PD possa risalire la china dei consensi è l’oggetto del dibattito precongressuale in atto. È un giudizio alquanto diffuso che non stia emergendo una offerta politica in grado di riposizionare gli interessi del lavoro nella transizione in atto.
Le difficoltà sono oggettive. La nuova economia dei servizi (70% del Pil) ha frammentato le vecchie solidarietà di classe, incorporando, tra l’altro, un terziario “low cost” e a basso valore aggiunto che alimenta una domanda di lavori poveri e a bassa retribuzione. Lo storico antagonismo fra capitale e lavoro si è trasferito all’esterno dei rapporti di produzione nelle grandi imprese industriali per investire l’organizzazione della società attraverso un ridisegno dei rapporti tra Stato e mercato, fra sostenibilità ed equità. Le ricadute sociali dei nuovi dispositivi di produzione e di mercato riassegnano alla politica di sinistra la ricostruzione di rapporto fra le nuove forme capitalistiche dell’economia e la democrazia degli interessi, quale asse di una modernità socialmente accettabile. Per quanto le mappe ideologiche di destra e di sinistra si siano sbiadite, va detto che sono ancora i punti di riferimento che da due secoli orientano le scelte politiche e la stessa interpretazione della realtà. Di certo l’offerta politica di sinistra è più complessa di quella di destra, perché deve costruire un riformismo progressista all’interno di vincoli sempre stringenti di competitività economica e di sostenibilità della finanza pubblica e perché il suo successo elettorale dipende dalla capacità di interpretare una domanda politica diversificata nei suoi interessi che inglobi per alcune materie (sicurezza, famiglia, comunità) idee spesso conservatrici.
Anche la politica presuppone un equilibrio fra l’offerta espressa dalla classe dirigente di un partito e la domanda che proviene dal suo potenziale bacino elettorale. Tornando al PD, l’analisi dei flussi elettorali, confermata dai periodici sondaggi, indicano che tale partito ottiene i maggiori consensi nelle categorie sociali più acculturate, che occupano posizioni economiche e professionali mediamente più elevate, residenti per lo più al Centro-Nord con una presenza significativa di giovani studenti. I partiti di destra sono preferiti, invece, da artigiani, commercianti e in genere lavoratori autonomi, con una forte componente di operai e casalinghe, categorie sociali che condividono livelli di scolarità e condizioni economiche medio-basse. I 5 Stelle ottengono i maggiori consensi fra giovani disoccupati e inoccupati di medio basso livello scolastico, residenti per lo più nel Sud e nelle Isole.
Interessante è l’auto collocazione di tali gruppi sociali: nel PD una larga maggioranza si colloca nell’area politica di centro-sinistra; i 5 Stelle nella sinistra; i Fratelli d’Italia e Lega nella destra, con l’eccezione di Forza Italia che privilegia il centro-destra. Si può dedurre, con la prudenza del caso, che tra i potenziali elettori del PD prevale una cultura riformistica espressa da un ceto medio produttivo che negli ultimi decenni è stato penalizzato nella ridistribuzione del reddito, nel carico fiscale, nelle aspettative di promozione sociale. Che non ha trovato riscontro nell’offerta politica di un partito, spesso appiattivo sulla difesa degli interessi più forti e rappresentati, impersonato da categorie sociali (dipendenti pubblici, insegnanti, pensionati) resistenti agli obiettivi di modernizzazione del Paese che sono ora assunti dall’attuazione del PNRR. Una strategia mascherata da una equivoca combinazione di progressismo e di massimalismo restia ad accettare la fine del PCI e l’irrazionalità di un radicalismo demagogico protestatario rappresentato dai 5 Stelle. La scelta che si propone al Congresso del PD va ben al di là dell’alternativa di collocarsi un po' più al centro o un po' più a sinistra, ricercando nuove mediazioni fra le diverse anime confluite nel PD e mai amalgamate fra loro. Più che rifondarsi o cambiare nome, deve esprimere una classe dirigente che sappia riconnettersi con la domanda politica espressa dalle categorie sociali più progressiste che chiedono un recupero di etica pubblica per risolvere i nodi strutturali che sono all’origine del declino economico e sociale del Paese.
Il PNRR è l’occasione, per le risorse messe in campo, di avviare il Paese verso un nuovo ciclo di sviluppo la cui sostenibilità richiede profonde modifiche nei processi amministrativi dello Stato e nella riorganizzazione delle strutture produttive private. Di tale progetto è nota la dimensione tecnocratica, digitale ed energetica, ma il ruolo del lavoro nella transizione prevista è ancora avvolto nella nebbia. Chi deve farsene carico se non il PD? Non si tratta solo di proteggere le fasce sociali più deboli rivedendo un welfare di stato non più in grado di arginare le diseguaglianze sociali. Occorre aprire al lavoro nuove prospettive di partecipazione ai cambiamenti nelle imprese (riprendere le tematiche abbandonate della dimensione economica) e nella società, ridando centralità al tema dell’occupazione e delle prestazioni offerte dai servizi pubblici di prossimità (trasporti locali, trattamento rifiuti, accoglienza degli immigrati), le cui inefficienze sono sottratte a qualsiasi forma di controllo sociale (sperimentazione di forme di democrazia diretta). Concludo in termini pirandelliani: così è (se vi pare).