Ad ogni elezione si ripete il solito copione. Aumentano quanti non vanno a votare? Una condizione contingente, si dice, dovuta alla debolezza dei candidati, alle offerte politiche mal comunicate, alla rissosità dei partiti. Quando però la disaffezione al voto aumenta di elezione in elezione e a Roma, capitale del Paese, si presenta alle urne un terzo degli aventi diritto, la questione diventa strutturale.
I cittadini non vanno a votare perché ritengono che votare non serva a nulla. Questo è il convincimento diffuso, peraltro segnalato da tempo dai vari sondaggi che hanno preceduto gli ultimi appuntamenti elettorali. Cambiano le offerte politiche, si alternano le maggioranze di governo, ma le difficoltà quotidiane dei cittadini alle prese con l’inefficienza dei servizi pubblici di necessità (trasporti pubblici locali, gestione del territorio, prestazioni sanitarie) rimangono le stesse. Un tempo c’erano i centri di ascolto, le sezioni locali dei partiti, le sedi dei Sindacati, le parrocchie dove i cittadini si incontravano e discutevano nella presunzione che qualcosa filtrasse dei loro bisogni nelle sedi politiche in cui si prendevano le decisioni. Oggi il cittadino è senza voce, suddito di burocrazie che gestiscono i servizi pubblici in un circuito perverso di vincoli sindacali e di pressioni politiche.
Per rimotivare la partecipazione politica dei cittadini occorre ripartire dal basso e riannodare i rapporti fra società politica e società civile. Norberto Bobbio, non a caso, scriveva che il migliore indicatore dello sviluppo democratico è dato dalle sedi in cui il cittadino è chiamato a votare, oltre a quelle politiche. E, a tal fine vale la distinzione fra il potere politico, la macro-democrazia, che appartiene al governo e alle sue articolazioni territoriali, e il potere amministrativo che può essere partecipato dai cittadini, a livello locale, con forme di micro-democrazia. Tra le tante cose non attuate della nostra Costituzione c’è quella che prevede comunità di utenti che esercitano un ruolo di controllo sull’erogazione dei servizi pubblici di necessità. Organismi previsti dagli statuti di queste imprese, a capitale pubblico, con il compito di raccogliere le disfunzioni segnalate dai cittadini, al fine di pervenire a soluzioni condivise.
Lo stesso scenario si ripresenta quando, a seguito di una elezione, un’area politica realizza una importante perdita di consensi, mettendo in discussione il rapporto dialettico fra maggioranza e minoranza che è il presupposto delle alternanze al Governo. L’ultima tornata elettorale ha segnato la crisi della Sinistra. Ancora una volta le analisi si rifanno a contingenze di breve periodo: la concorrenza di più partiti nella stessa area politica, il PD che non ha ancora una guida politica, candidati privi di carisma. Si tende a sottovalutare che la crisi della Sinistra viene da lontano e che evidenzia un limite strutturale :un modello di governance che, facendo perno sulle dinamiche interne di potere e sul frazionismo alimentato dal protagonismo dei ceti dirigenti, ha perso i suoi referenti sociali in una evoluzione economica e sociale che ha fortemente ridimensionato i blocchi sociali creati dalla precedente fase di industrializzazione del Paese. La sinistra politica si è trovata così disarmata nel fronteggiare l’aumento delle diseguaglianze sociali, in parte alimentate dall’arretramento del sistema di welfare di Stato nella sua capacità di soddisfare i bisogni crescenti dei cittadini, e in parte dovute ad una evoluzione del sistema produttivo, trainato dallo sviluppo terziario e tecnologico, che ha frantumato il mercato del lavoro. Lavori poveri e precari da un lato e lavori professionalmente qualificati, dall’altro che – quando occupati da giovani – sono mediamente meno pagati (fonte Istat) nonostante un titolo di studio più elevato.
Certo, è difficile costruire una proposta politica progressista in un sistema economico e sociale sottoposto ai vincoli di una competitività globale e in presenza di limiti agli aiuti di Stato imposti dalla sostenibilità di un elevato debito pubblico. Occorre una visione di insieme che tenga conto dei “perdenti” delle ristrutturazioni in atto, bisognosi di tutela sociale, ma anche dei “vincenti” che ancora guardano alla sinistra politica come una opportunità per una crescita generosa e socialmente sostenibile. Contrapporre i due interessi nuoce alla reciproca realizzazione. Il problema politico da risolvere non è tanto quello di collocarsi un po' più al centro o un po' più a sinistra. La Sinistra deve recuperare l’ambizione di disegnare gli orizzonti possibili di un fronte progressista se non vuol disperdere quel bacino di potenziali elettori che, sulla base delle analisi dei flussi elettorali, è costituito dalle categorie sociali più acculturate, professionalmente più qualificate con una presenza significativa di giovani.
Il sistema che regola le dinamiche politiche nel nostro Paese è ormai logoro. La nostra democrazia sta perdendo vitalità nella sfida portata dai regimi autoritari. Manca un nuovo canovaccio in grado di dare un senso “al gioco delle parti”. La Destra è popolare perché interpreta una domanda di legge e di ordine; la Sinistra, se rimane chiusa in un radicalismo rissoso non sorretto da un pensiero e da un progetto di cambiamento, rischia di rendere irreversibile la sua crisi.