Eloquio colto e gradevole, il professor Lorenzo Pallesi s’intrattiene sulla eleganza liberty decò del palazzo che nel cuore di Bari ospita la sede dell’Acquedotto pugliese. Come se l’argomento fosse l’edificio e non la società di cui è presidente insiste senza malizia sulla (involontaria?) metonimia e finisce per trascurare quello che in Puglia tutti sanno, ovvero che l’Acquedotto pugliese “dà da bere e da mangiare”, per dire la sua forza propulsiva elettorale ben nota ai partiti. I quali non pare abbiano ricambiato con le attenzioni che meriterebbe un’opera secolare come l’Acquedotto, uno dei più grandi d’Italia, che “si perde per strada il 40 per cento della portata”.
Nel suo ufficio, rigorosamente firmato dalle sedie agli armadi, Pallesi me ne parla in un colloquio che gli avevo chiesto per un’inchiesta di Repubblica sulla situazione socio-economica del Mezzogiorno. Siamo agli inizi di questo secolo e dunque più di venti anni fa, un’epoca in cui la siccità viene vista come una piaga che affligge solo alcune zone dell’Italia meridionale e insulare. Da sempre la crisi dell’acqua, parte fondamentale del più vasto sistema idrogeologico del Paese, è uno di quei problemi che i governi tendono a relegare in una sciagurata marginalità, derubricandola a questione di secondaria importanza da scaricare quando possibile sulle amministrazioni locali. Che se la vedano da Roma in giù, tanto il Nord è al sicuro con le Alpi e il Po.
E questo nonostante l’evoluzione del clima segnali in maniera sempre più stringente le conseguenze che possono derivare dal fatto di derubricare la gestione idrica a questione di secondaria importanza. Se la vedano da Roma in giù, a Nord ci sono le Alpi e il Po. Poi un giorno si apprende che alcuni comuni della provincia di Cuneo alle falde del Monviso vengono riforniti di acqua con le autocisterne, che le risaie del Vercellese sono a secco, che il Po è transitabile a piedi dove una volta era indispensabile una barca, che le fontane di piazza sono monumenti morti, che gli alberi germogliano senza avere perduto le vecchie foglie, che per scarsità d’acqua vengono sostituite alcune coltivazioni in non pochi casi rinunciando ad esse e condannando ampie zone di territorio a un destino di desertificazione. Insomma che la linea delle palme e del caffè (per dirla con parole di Sciascia) sotto il profilo meteorologico si è alzata risalendo la Penisola.
Ed ecco, puntuale, l’emergenza siccità con seguito di richieste di interventi finanziari a sostegno dell’agricoltura che finiranno per costare più di quanto si sarebbe speso per rimediare allo spreco dell’acqua che si scopre non essere soltanto un problema del Mezzogiorno ma di larga parte dell’Italia. Di qui le lamentazioni degli agricoltori, legittime a condizione che si passi sotto silenzio la loro parte di responsabilità derivante dal pessimo uso delle risorse idriche legato a sistemi di irrigazione da paese sottosviluppato. Inutile ricordare che tutto questo si traduce poi in un aumento dei prezzi sul mercato e sul ricorso a importazione di prodotti che fino a qualche anno fa venivano coltivati nelle campagne italiane.
La siccità irrompe nei dibattiti, se ne occupano i giornali, ma per informarci che a gennaio 2023 il piano invasi (diecimila laghetti per il riutilizzo del 35 per cento dell’acqua piovana) è stato realizzato soltanto per un 2 per cento. E mentre gli agricoltori guardano il cielo invocando la pioggia come gli indiani delle riserve navajo dell’Arizona Palazzo Chigi che cosa fa? Nomina un commissario straordinario per la crisi idrica (creando un'altra poltrona da assegnare a qualche amico), istituisce un tavolo e promette di mettersi al lavoro per superare l’emergenza idrica. E così ci sarà ancora da bere e da mangiare.