Il rischio è che diventi una delle tante arretratezze croniche alle quali si finisce col fare l’abitudine per poi rassegnarsi all’idea di vivere stabilmente in un paese con un livello salariale tra i più bassi d’Europa. I numeri descrivono questo scenario e i numeri, se letti bene, non mentono. Questo primato negativo, per la verità, esiste da tempo e se oggi risulta allarmante è perché negli ultimi anni ha assunto dimensioni che allontanano l’Italia dal resto dell’Europa. I sindacati ne sono consapevoli e sanno anche che la situazione potrebbe finire fuori controllo. Il governo di Giorgia Meloni nei suoi primi cinque mesi di vita non ha, come si sul dire, preso di petto il problema confidando in un’assuefazione che erroneamente pensa possa durare a lungo. Ma i segnali dicono che non è così per cui è ragionevole prevedere che quando a Palazzo Chigi saranno passate le turbolenze riconducibili all’operato dei ministri Plantedosi, Nordio, Valditara, Sangiuliano la questione salariale si presenterà come un tema caldo nell’affrontare il quale non si potrà non tenere conto della prevedibile saldatura tra Elly Schlein e il sindacato, una svolta che promette di andare oltre il rapporto tra la nuova leader del Pd e la Cgil di Landini.
Cosa che non dovrebbe rivelarsi un traguardo impossibile dal momento che, nel clima politico che si è venuto a creare dopo il 25 settembre, anche le organizzazioni del lavoro hanno l’interesse di crearsi una sponda che, senza essere la vecchia cinghia di trasmissione Pci-sindacato seppellita col secolo scorso, permetta di ampliare e rafforzare il fronte a sostegno delle loro rivendicazioni, a partire proprio dall’adeguamento dei salari. Un tema, questo, che chiama in causa anche la Confindustria.
Qualcuno potrà dire che non si tratta di una novità ricordando che il livello salariale italiano non è mai stato tra i più alti d’Europa. Se ciò è vero -e non dovrebbero esserci dubbi- resta il fatto che da qualche anno lo scenario europeo è cambiato anche al netto degli effetti, comuni a tutti, del coronavirus. Negli ultimi trent’anni tutti i paesi dell’Europa hanno fatto registrare un aumento dei salari con eccezione della sola Italia dove addirittura c’è stata una diminuzione poco al di sotto del 3 per cento. I dati di fonte Eurostat dicono che il salario medio 2021 era di 2825 euro in Europa, 2520 in Italia, 3349 in Germania, 2895 in Francia. Negli ultimi due anni lo scarto si è accentuato nonostante la ripresa post-covid per certi versi in Italia sia stata più consistente che altrove, a conferma del fatto che se c’è stato un rallentamento dell’azione sindacale insieme a una scarsa capacità dell’industria di creare ricchezza.
A fronte di questa situazione il governo di destra-centro si è limitato sinora a includere genericamente la questione dei bassi salari, da non confondersi con la discussione pur importante sul salario minimo, nelle sue priorità ma a nessuno sfugge che essa non potrà restare ancora a lungo fuori dell’agenda della ministra Maria Elvira Calderone. L’arretratezza salariale rimane dunque sullo sfondo del panorama politico ed economico italiano carica di un’attualità che potrebbe riservare sorprese. Come dire che se in passato eravamo abituati a collocare nella stagione autunnale le grandi iniziative di lotta dei lavoratori non si può oggi escludere la prospettiva di una “primavera calda” come peraltro suggeriscono i segnali che arrivano da Francia, Spagna e Germania. E per il governo Meloni sarà il primo vero scoglio.