di Paolo Pagliaro
Si chiama mobilità sanitaria, significa farsi curare in una regione diversa da quella in cui si risiede. Nel 2020, ultimo anno per cui sono disponibili i dati, si sono spesi per questo 3 miliardi e 300 milioni. Senza la pandemia, che ha reso più difficili i trasferimenti, sarebbero stati molti di più.
Ci sono Regioni che questo miliardi li hanno incassati, altre che invece li hanno dovuti risarcire. Il rapporto Gimbe sulla mobilità sanitaria interregionale, presentato oggi, fotografa un flusso di denaro che scorre prevalentemente da Sud a Nord e in particolare verso le regioni che hanno già sottoscritto i pre-accordi con il Governo per la richiesta di maggiori autonomie. Si tratta di Emilia-Romagna, Lombardia e Veneto, tre regioni che nei confronti di quasi tutte le altre vantano grandi crediti perché offrono grandi servizi. Il saldo è invece pesantemente negativo per Puglia, Sicilia, Lazio e Campania, tutte regioni debitrici per centinaia di milioni ciascuna, con la Calabria che non è in classifica solo perché mancano i dati. Nel centro sud l’unica eccezione virtuosa è il Molise.
Due terzi dei rimborsi coprono i costi delle prestazioni di ricovero e day hospital, ma il dato più significativo è che oltre la metà dei ricoveri e delle visite mediche in mobilità vengono erogate da strutture private accreditate. Che dunque incassano 1 miliardo e 400 milioni contro il miliardo e 200 milioni destinati alle strutture pubbliche.
Secondo Nino Cartebellotta, presidente della Fondazione Gimbe e coautore del rapporto, si tratta di un ulteriore chiaro segnale di impoverimento del servizio sanitario nazionale.