Stiamo vivendo una dittatura digitale: basta osservare le persone che camminano, il loro sguardo. Non solo in strada, ma nelle metro e nei tram, sui treni, sugli aerei: sguardo verso il basso, come ipnotizzato. E le stelle? Il cielo, non lo guardiamo più? Diventeremo tutti gobbi, oltre che vuoti di pensiero… vi chiedo, quando camminiamo, quante volte ci accade di scontrarci con altre persone, solo perché non riescono/riusciamo a focalizzare la direzione, ma hanno/abbiamo gli occhi letteralmente magnetizzati dallo smartphone? Non potrebbe, questo, già farci riflettere…? Siamo già manipolati, profilatissimi, già solo perché il nostro moto deambulatorio segue traiettorie non nostre ma, come fossimo marionette, quelle dettate dal Mastro Digitale che ci muove coi suoi fili: si chiama Microsoft, Bing, Amazon, Google (il nonno, ma un nonno dittatore). Dove stiamo andando, esattamente?
ChatGPT è un altro dei nostri troppi specchi in cui rifletterci non ci rimanda un’immagine obiettiva di noi, ma quella che vogliamo vedere, dove il presente indicativo «vogliamo» assume una coloritura pericolosamente dittatoriale. La dittatura ci è inferta dal digitale da molto tempo, ma oggi il suo potere tocca l’apice attraverso le tecnologie AI, di cui ChatGPT è il baluardo: non sostituibile a una mente e un cuore creativi, e delle mani creative, ma un’app molto pericolosa per gli aspetti del controllo magnetico e della sovrimpressione di confusione all’infodemia preesistente, come si va dimostrando sempre più chiaramente.
Il verbo «vogliamo» ha una sfumatura dittatoriale perché l’app costituisce una deflagrazione digitale ancora più grave delle precedenti in quanto, paradossalmente, se non “la prendiamo per tempo”, ci renderà altrettanto dittatoriali. Lo sta già facendo: lo dice la rabbia dei nuovi adolescenti (generazione Zeta), non più abituati, non più ovviamente educati a essere contraddetti. Ma come fanno? Manca il tempo, mancano le persone per dedicarsi a loro istruttivamente (sottopagate, precarie, ecc.), manca il terreno fertile, ovvero reale, palpabile, affinché i nuovi ventenni possano essere abituati, ovvero educati virtuosamente a una risposta dialettica e a sentire, tollerare, un’opinione diversa. Me ne sono accorta di recente, ascoltando pareri di alcuni amici che insegnano nelle scuole secondarie tra Firenze, Milano e Bologna, assistendo il mio professore agli esami di Letteratura Italiana a Milano, e facendo io stessa delle lezioni private a un ragazzo di sedici anni. Ma ce ne possiamo accorgere facilmente tutti se aguzziamo le orecchie: ascoltando le persone, di ogni categoria sociale e occupazionale. C’è rabbia, stanchezza, ma soprattutto rabbia, e sempre più diffusa, generale.
Un ragazzo di vent’anni oggi sta maturando un nuovo sistema cognitivo: a un convegno ascoltato a Milano a inizio marzo, sul rapporto tra poesia e scienza, è stato osservato che la nuova malattia degli anni Zero è l’Alzheimer. Quella del Novecento il tumore, quella dell’Ottocento la tisi. La nostra memoria sta cambiando: è ovvio! Strabordiamo di informazioni da tutti i lati, ma siamo gli stessi esseri umani che mille anni fa in un anno solare “contenevano”/trattenevano lo stesso quantitativo di informazioni che oggi “riceviamo” in 24 ore. Se è naturale che la nostra capacità di concentrazione e, di conseguenza, la nostra modalità di recepire sta cambiando drasticamente/andrà modificata (bisogna cambiare il programma e la metodologia didattica nelle scuole secondarie! Sono già molti in Italia i casi di suicidio di adolescenti/studenti universitari, i casi di guerriglie tra diverse culture nei licei del mio paese), è meno naturale non tanto che non stiamo già bloccando, regolamentando l’app, o anche solo i dispositivi digitali ai minorenni (capisco che ci voglia tempo, che non sia immediato a livello legislativo, burocratico, ecc.), ma che non ce ne stiamo accorgendo.
Rendendomi portavoce della mia “categoria” di persone dedite all’Umanistica, nel senso più vasto al linguaggio e alla produzione artistico-estetica, direi: ok, è vero, potrebbe essere interessante lavorare nell’addestramento dell’App ChatGPT per renderla più efficace da un punto di vista letterario, più abile nello sviluppo di contenuti che siano figli di una valutazione morale, più proficuo e simile a un vero comunicatore (che comunica per il bene). È vero, potrebbe essere interessante e avere un senso: se la persona che vuole le merendine nel vecchio distributore anni ‘90-2000 vuole ancora le merendine, e la macchina non funziona, non servirà che le dia qualche calcio: dovrà chiamare un addetto ai lavori per “riaddestrarla” a funzionare. Questo vale anche per ChatGPT – serve un poeta addestratore per far sì che questo “Artitifio Intelligente” (chiamiamolo col vero nome) produca un oggetto coerente e sensato, una ChatGPTpoesia. Va bene. Ma le urgenze sono altre, e noi come comunità che abita e riempie un pianeta che (ormai dovremmo averlo capito, quantomeno dalle nostre temperature tropicali) sta morendo abbrustolito, mitragliato, centrifugato, dovremmo occuparci di un’applicazione utile di questo nuovo strumento millantato come la più grande rivoluzione digitale dopo Internet. È un mezzo e noi siamo gli «usatori» (users), che in italiano sono “coloro che usano”. È da noi che parte l’utilizzo del mezzo stesso, non siamo quelli che lo usano a posteriori, gli utenti (users di nuovo, in inglese – ringraziamo la nostra lingua per questa differenza!) che lo subiscono, in questo caso. Siamo proprio noi l’a priori e, ricordiamocelo, “intelligenza” non è solo cervello, cognizione, ragionamento, calcolo, efficienza. Intelligenza è vedere con molti sensi: un modo empatico e simpatico di sentire se stessi mentre sentiamo che esistono gli altri e che dunque possiamo esistere con gli altri, per una coabitazione (almeno) civile e rispettosa e possibilmente costruttiva e produttiva.
Le urgenze dell’applicazione di ChatGPT sono moltissime, e tutte connesse con la nuova caratteristica incontrovertibile del mondo contemporaneo, la più palese: l’iper-velocità. Quest’ultima contraddistingue non solo il processo di diffusione delle informazioni (algoritmiche in primis, ma anche editoriali seppure digitali), dei mezzi di produzione nonché di trasporto, dei sistemi: il progresso è servito a questo – non facciamoci trainare dalla trottola come criceti, continuiamo a manovrare la funzione-velocità ottenuta. La velocità faticosamente raggiunta grazie al nostro progresso come società dovrebbe scendere dai piani “alti” (o tanto bassi da essere sotterranei, visto che comunque noi utenti in questo caso, noi “persone dello Stato”, non li vediamo) della guerra fratricida tra Microsoft e Google e applicarsi utilmente in una molteplicità di settori. Questi ultimi spaziano dall’archiviazione digitale (dei moltissimi archivi bibliotecari che custodiscono perle preziose della nostra memoria culturale, per fare solo un esempio) alla sanità (smaltire i dati, le cartelle, lo “storico” degli innumerevoli reparti che nel pubblico di certo necessitano di un’ottimizzazione dei tempi), per citare i più “bisognosi”.
ChatGPT ha un’altra qualità pericolosa, a mio avviso: l’ipnosi. Replicando nella sua risposta la formula esatta della domanda (input) posta dall’utente che vuole dominarla, adotta la strategia di rimandargli indietro le sue stesse parole nella formulazione della risposta (output). “Smart”, seducente, in questo, la macchinina: libidinosa soltanto per i cervellotici, però. Non per i poeti che ne annusano lo stupro ai danni della collettività meno preparata, e quindi debole, non per le persone con un’etica che riescano a percepire la gravità della dittatura in atto, e in atto ovunque: in ogni angolo del globo dove prenda wifi.
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