Agenzia Giornalistica
direttore Paolo Pagliaro

Alla scoperta dei dipinti di Antonio Ligabue a Reggio Emilia

Mostre
Le grandi mostre in programma in Italia e quelle che hanno l'Italia, attraverso i suoi grandi artisti, come protagonista nel mondo. Lo "Speciale mostre" è un viaggio tra capolavori, opere d'avanguardia e sperimentali, pittura e scultura, memoria e identità, storia e filosofia, un tributo all'arte e ai suoi protagonisti e un modo per scoprire quanto di buono fanno le istituzioni nazionali e locali per il nostro patrimonio culturale e di creatività.

Un’occasione unica per celebrare il genio del grande pittore Antonio Ligabue: la Galleria de’ Bonis di Reggio Emilia ospiterà, dallo scorso 18 marzo fino al 10 aprile, la sua prima mostra monografica dedicata ad Antonio Ligabue, dal titolo “Antonio Ligabue. Terra: luogo d'origine, campo di lavoro, scenografia di una impresa”, realizzata in collaborazione con la Fondazione Museo Antonio Ligabue di Gualtieri. Quindici opere ad olio per un nuovo progetto espositivo che celebra il grande artista e la sua terra, indagando il suo viscerale legame con la natura. Le opere esposte sono scene di genere che narrano il lavoro nei campi, animate da contadini, solidi e massicci, come i cavalli da tiro che hanno al fianco, stanchi, al rientro da una giornata spesa a lavorare la terra, ma sereni. La scelta della Galleria de’ Bonis spazia tra la terra natia del grande pittore, la Svizzera, riconoscibile in paesini caratteristici e in castelli che sembrano uscire da una fiaba, e la terra che lo ha accolto, la pianura padana, con i suoi campi e la sua tipica vegetazione. Il nucleo della mostra è dedicato a dipinti che rappresentano cani, una raccolta unica nel suo genere. Questa sezione comprende opere del I, II e III periodo della sua pittura, abbracciando l'intera produzione dell’artista. L’esposizione è accompagnata da un catalogo Vanillaedizioni con testi di Sergio, Francesco Negri, Tiziano Soresina e Stanislao de’ Bonis. (gci)

A LECCO I PROTAGONISTI DEL FUTURISMO

Una mostra che indaga la presenza di linguaggi d’avanguardia nell’Italia dei primi decenni del Novecento e si concentra sull’esperienza futurista, nelle sue molteplici espressioni, attraverso le opere dei suoi più celebri rappresentanti. A Lecco, dallo scorso 18 marzo fino al 18 giugno, il Palazzo delle Paure ospiterà la mostra “Futuristi. Una generazione all’avanguardia”, a cura di Simona Bartolena. L’iniziativa rappresenta il secondo dei cinque appuntamenti di “Percorsi nel Novecento”, programma ideato dalla Direzione del Sistema Museale Urbano Lecchese e affidato per la sua progettazione e realizzazione a ViDi Cultural che, fino a novembre 2024, analizzerà la scena culturale italiana nelle prime sei decadi del XX secolo. L’esposizione, prodotta e realizzata da ViDi cultural in collaborazione con il Comune di Lecco e il Sistema Museale Urbano Lecchese, travel partner Trenord, si concentra sull’esperienza futurista, attraverso le opere dei suoi più celebri rappresentanti: da Giacomo Balla a Luigi Russolo, passando per Gino Severini, Enrico Prampolini, Filippo Tommaso Marinetti, Antonio Sant’Elia, Fortunato Depero, Tullio Crali e molti altri. La rassegna racconta uno dei movimenti d’avanguardia più importanti d’Europa, nato e sviluppatosi in Italia, e i suoi rapporti con la scena europea e con la società italiana del tempo. Il percorso espositivo, suddiviso in sette capitoli, propone una panoramica coinvolgente sugli esiti noti e meno noti del movimento e si apre con la sezione che ripercorre le origini del movimento, a partire dal 20 febbraio 1909 in cui, sulle pagine del quotidiano francese Le Figaro, Filippo Tommaso Marinetti pubblicò un articolo intitolato “Le Futurisme”, nel quale con toni accesi e provocatori, caratteristici della sua prosa, esponeva la necessità di una rivoluzione artistica. Il racconto prosegue indagando la relazione tra il Futurismo e il primo conflitto bellico mondiale, quando i futuristi sostenevano la posizione interventista. Una splendida tela dedicata a Francesco Baracca di Plinio Nomellini offre anche l'occasione per riflettere sul rapporto dell’avanguardia futurista con il Divisionismo. Un focus è dedicato anche al ruolo che il Futurismo ha avuto nella nascita dei nuovi linguaggi sperimentali di inizio secolo scorso, in particolare con il Cubismo, anche attraverso la figura di Gino Severini. Un interessante approfondimento, finora poco indagato, è riservato anche alla presenza di ipotesi astrattiste nella produzione italiana, con opere di autori quali Giacomo Balla e con una parentesi dedicata agli astrattisti comaschi quali Manlio Rho, Mario Radice e Carla Badiali e al loro rapporto con Marinetti. La rassegna lecchese passa quindi ad analizzare una delle istanze più innovative del linguaggio futurista in pittura, ovvero quella di riprodurre un oggetto in movimento, collocando lo spettatore di fronte a una composizione in divenire, sollecitandone sensazioni dinamiche. La sezione “Un universo futurista”, nucleo portante dell’esposizione, presenta importanti testimonianze dell’interazione con le arti applicate, la comunicazione pubblicitaria, il design, il teatro, la danza e la musica. Particolare attenzione sarà dedicata alla ricerca di Fortunato Depero e al suo rapporto con Campari e di Luigi Russolo, del quale saranno esposti gli “Intonarumori”. La rassegna si chiude esaminando l’evoluzione dell’Avanguardia futurista, così come si è sviluppata negli anni Trenta del Novecento. Così l’assessore alla Cultura del Comune di Lecco, Simona Piazza: “Continua il percorso promosso da ViDi cultural, in collaborazione con l’amministrazione comunale per l’esposizione delle grandi mostre di Palazzo Paure, nel viaggio che ci accompagna tra ‘800 e ‘900 che giunge così ai primi anni del 900 con i linguaggi d’avanguardia, ovvero del futurismo. Una mostra importante che raccoglie opere significative anche sul panorama nazionale e internazionale, con la possibilità di essere un evento attrattivo non solo per i cittadini e le scuole che vi faranno visita, ma anche per un pubblico che arriverà a Lecco interessato a frequentare e visitare la nostra città in termini di partecipazione e turismo culturale”. (gci)

TRA ARTE E MERLETTI: L’OMAGGIO DI MATTHIAS SCHALLER A VENEZIA

Matthias Schaller, nato nel 1965 in Germania, traendo spunto da un merletto del Seicento della Collezione del Museo di Burano, ha deciso di raccontare uno dei più antichi e prestigiosi “saper fare” veneziani e le molteplici relazioni, passate e presenti, che legano quest’arte alla città lagunare. In quest’ottica prende vita dal 24 marzo al 26 novembre la mostra “Tessuto Urbano” al Museo di Palazzo Mocenigo di Venezia, in collaborazione con Sonnabend Gallery (New York), ospitata nel Centro Studi di storia del Tessuto, del Costume e del Profumo Piano terra - White Room. Del merletto prescelto, lungo tre metri, sono stati realizzati sette scatti che, a loro volta, traducono visivamente, secondo l’intenzione dell’artista, altrettante sezioni che metaforicamente vogliono rappresentare idealmente un’immagine topografica della città lagunare. Un'intuizione che nasce come citazione della prestigiosa tavola del de’ Barberi. I sette scatti individuano i Sestieri di Venezia e la struttura del merletto traspone, grazie ai vari punti e l’intreccio, la “trama” della città veneziana. Così i punti, come le calli e i campielli, creano un vero e proprio tessuto urbano. L’installazione nella Project White Room vuole assumere, poi, anche il valore di un percorso dentro la stanza che ricorda l’esperienza di chi percorre le vie di Venezia. “Nell'immaginario - dichiara Chiara Squarcina, dirigente di Palazzo Mocenigo - le sette fotografie costruiscono pertanto una nuova rappresentazione urbana nella tradizione iconografica della città. Infatti, mentre la tavola del de' Barbari tenta di documentare uno spazio umano creato artificialmente per comprendere lo svolgimento di una vita economica, privata, ecclesiastica, politica, artistica, il progetto ‘Tessuto Urbano’ (2022) ricorda la forza dell’artigianato tradizionale e locale questo caso collega e tiene assieme la vita umana in uno spazio delimitato circondato dalla laguna”. (gci)

PROROGATA “TRACE’ SUR L’EAU” DI JOAN MIRO’ A ROMA

Una nuova occasione imperdibile per lasciarsi affascinare dalle misteriose opere di Joan Mirò: è stata prorogata fino all'8 aprile la mostra “Tracé sur l’eau. 14 acquerelli di Joan Mirò” a La Galleria delle Arti di Roma. L’esposizione, una serie di 14 acquerelli stampati ad acquaforte su onion skin paper du Marais in un’edizione limitata, pubblicata nel 1963 come libro d’artista, sarà visitabile il mercoledì, il giovedì e la domenica dalle 18 alle 22 e il venerdì e il sabato dalle 18 alle 23 con ingresso con formula “Up to you”. Le opere in mostra testimoniano quanto Mirò attinga da diversi stili e movimenti artistici, in particolare dall’espressionismo astratto americano, con un chiaro riferimento al drip painting di Pollock, il quale a sua volta si ispira al movimento Surrealista. Joan Mirò è stato un artista spagnolo, considerato uno dei più ferventi esponenti del Surrealismo del XX secolo. Nato a Barcellona nel 1893, inizia a studiare arte sin da giovane alla Scuola di Belle Arti della sua città natale. Negli anni ‘20 si trasferisce a Parigi, dove entra in contatto con il circolo di Tristan Tzara e con artisti come Salvador Dalì e Pablo Picasso. L’influenza del movimento dadaista, ma ancor di più della poesia surrealista, porta l’arte di Mirò verso l’astrazione, riducendo la realtà all’essenziale. “Assassinare l'arte convenzionale” è la sua missione, che tenterà di compiere per tutta la sua vita, a partire dagli anni ‘20 fino alla celebrità degli anni ‘50, quando conquista il premio per la grafica alla Biennale di Venezia (1954) e il Premio Internazionale Guggenheim (1958). La sua produzione artistica si avvale di una poliedricità di forme e mezzi espressivi, dalla pittura alla ceramica fino all’opera grafica, che gli hanno permesso di esprimere il suo spirito innovativo, attraverso segni, colori e superfici. Mirò dà vita a una delle vicende artistiche più significative e fertili del ‘900 e dedicò la sua vita alla sperimentazione di nuove tecniche e alla ricerca di un linguaggio universale, immediatamente comprensibile da tutti. Muore a Palma di Maiorca nel 1983. (gci)

“CONSCIOUS COLLECTIVE”: A ROMA TRE ARTISTI ISRAELIANI

Una mostra per raccontare la complessa realtà culturale israeliana, tra identità e luoghi, memoria e legami, attraverso le opere di Tsibi Geva, Maria Saleh Mahameed e Noa Yekutieli. Si tratta di “Conscious Collective”, dallo scorso 17 marzo fino al 4 giugno nella Sala Claudia Gian Ferrari del MAXXI di Roma, realizzata dalla Fondazione MAXXI in collaborazione con l'Ambasciata d’Israele in Italia e il sostegno di Intesa Sanpaolo, a cura di Bartolomeo Pietromarchi e Shai Baitel con curatore associato Elena Motisi. I tre artisti, appartenenti a contesti e generazioni diverse, in apparenza sembrano avere poco in comune: Tsibi Geva (Kibbutz Ein Shemer, Israele, 1951), di origine ebraica askenazita, figlio di uno dei maggiori esponenti del Bauhaus israeliano, è un artista noto a livello internazionale che vive e lavora tra Tel Aviv e New York; Maria Saleh Mahameed (Umm el-Fahem, Israele, 1990), è figlia di padre palestinese e madre ucraina e cristiana; Noa Yekutieli (Los Angeles, USA, 1989) è un’artista multidisciplinare autodidatta nata in California da madre giapponese e padre israeliano, che lavora tra Tel Aviv e Los Angeles. Diverse dunque le origini, le influenze, le sensibilità, e anche le tecniche e i materiali che i tre artisti utilizzano. Eppure, i loro lavori rivelano inattese connessioni. Le opere in mostra affondano le radici nelle singole biografie e raccontano di esperienze intime ma universali al tempo stesso, restituendo una visione multiforme di Israele. Richiamando il concetto junghiano di “inconscio collettivo”, un’eredità appartenente a un lontano passato e comune a tutta l’umanità, “Conscious Collective” indaga come sia possibile ritrovare un senso di collettività anche in una terra in cui il conflitto è una costante, e come accettare la vita con le sue contraddizioni possa essere la chiave per un’esistenza migliore. Scrive il curatore Shai Baitel: “A prima vista, i punti di divergenza sembrano superare quelli di affinità. La loro narrazione, i mezzi espressivi a cui fanno ricorso e le loro intenzioni artistiche possono persino apparire in contrasto tra loro. Le loro opere, cui fa da sfondo la realtà israeliana e quella palestinese, riecheggiano il costante stato di conflitto che imperversa all’interno della regione, o di loro stessi. Eppure, nonostante tali differenze e divergenze, questi tre artisti sono accomunati dal miracoloso legame dell'amicizia. Il sostegno reciproco alla base del loro rapporto rafforza la produzione artistica di ciascuno di essi, fornendo al contempo una cornice ragguardevole a questa mostra. A fare da collante al loro lavoro è la relazionalità, una visione del mondo che enfatizza un senso innato di connessione tra gli esseri umani”. “Siamo molto onorati di aver organizzato con l’Ambasciata di Israele questa mostra insieme al curatore Shai Baitel - aggiunge Bartolomeo Pietromarchi, direttore MAXXI Arte e curatore della mostra - ‘Conscious Collective’ offre la possibilità al pubblico del museo di comprendere la complessità e la diversità delle culture delle terre di Israele in un dialogo tra artisti che testimonia la volontà di dialogo e integrazione che l’arte in particolare ha la capacità di tessere”. Elena Motisi, curatore associato, conclude: “Presentiamo le pratiche e le sensibilità di tre artisti appartenenti a diverse generazioni, genere, comunità etniche, religione e status socioeconomico. I lavori, profondamente influenzati dalle rispettive biografie, esprimono queste diversità, e al tempo stesso presentano una complessa dimensione multiculturale. Geva ci riporta con forza sulle strade di Israele, Saleh Mahameed ci fa quasi toccare con mano la matericità del carbone della sua città natale, e Yekutieli, con la raffinatezza del suo intaglio, apre una finestra sulle sue esperienze di vita”. (gci)

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