Non ho la pretesa di entrare nel merito della vicenda di Daria Trepova, la ragazza russa arrestata e rea confessa, secondo la polizia, di aver portato l’esplosivo che in un bar di San Pietroburgo ha ucciso il blogger militare Vladlen Tatarski e ferito ventisei persone. Mi sono limitato in questi giorni a leggere i resoconti dei corrispondenti da Mosca con riferimento alle “confessioni” e alla disperata difesa della Trepova che sostiene di essere stata “incastrata”. Se mi avventuro in questa vicenda ancora poco chiara e presumibilmente destinata a restare tale è perché essa mi ha fatto andare con la memoria a un episodio di tanti anni fa di cui sono stato mio malgrado protagonista nella città che all’epoca si chiamava ancora Leningrado.
Facevo parte di un in gruppo di amministratori e giornalisti torinesi in visita a Mosca e appunto a Leningrado. Tutto accadde in questa seconda città una sera del settembre 1967. In compagnia di un collega dell’Unità, Nello Pacifico, che conoscevo e che ho stimato e apprezzato fino alla sua morte, per quel suo continuare a sentirsi comunista con coerenza mai esibita anche dopo le varie mutazione del Pci seguite alla caduta del Muro di Berlino, durante il percorso a piedi che avrebbe dovuto portarci al Museo dell’Ermitage, chiacchierando sul lungo Nieva, perdemmo il contatto col gruppo. Non potendo immaginare che fosse un problema e meno che mai un “reato”, decidemmo di proseguire da soli per poi rientrare in albergo. Tanto più che nel corso di questa innocua diserzione avemmo occasione di conoscere una famiglia che amabilmente ci invitò in casa.
L’appartamento era sotto il livello della strada e forse per questo ci eravamo per un attimo soffermati a guardare, incuriositi della normale sobrietà di quella dislocazione che a noi era parsa anormale. Fummo anche invitati a tavola dove stava cenando la famiglia composta da marito moglie e due bambini. Nel corso di questa breve cena, con le pochissime parole di russo in nostro possesso e le loro altrettanto poche di italiano, riuscimmo a capire che tra gli innocui desideri, peraltro condivisi più o meno in segreto da molte persone nell’Unione Sovietica di Breznev, figuravano i libri di Moravia e i dischi delle canzoni di Claudio Villa. Al nostro rientro in albergo prima della mezzanotte, la sorpresa. Ad attenderci trovammo la guida in compagnia di due “funzionari” e naturalmente del resto della comitiva torinese allarmata e curiosa di assistere al finale della nostra disavventura.
L’interrogatorio al quale fummo sottoposti, tramite l’interprete del gruppo, sarebbe stato comico se non ci fosse stato il timore delle conseguenze alle quali senza tante allusioni rimandavano le domande dei due funzionari in giaccone di pelle nera e stivali, ottusamente impegnati nella loro missione. L’intervento di un ex dirigente della Cgil e di un ascoltato uomo d’affari torinese che all’epoca si diceva -ed era vero- tenessero da Mosca i contatti del Pcus e del Cremlino col Pci, chiuse alla fine la vicenda il cui unico effetto fu la rimozione dell’incolpevole guida. Inutile sottolineare che non mi ha neppure sfiorato l’idea di accostare quel trascurabile incidente di oltre mezzo secolo fa al brutto pasticcio in cui naviga la Trepova che non potrà certo cavarsela con l’intervento riparatore di qualcuno in suo favore nonostante si siano fatti sentire i dissidenti russi per intestarsi l’attentato. Se ho ripescato quel lontano ricordo è perché non ho potuto fare a meno di immaginare un interrogatorio, magari non più di due sbirri in giacca di cuoio e dai modi rozzi come il loro eloquio, in un paese che speravamo non fosse più quello di Breznev, per poi scoprire oggi che certi metodi sopravvivono a tutte le evoluzioni del tempo e della storia. E che al di là della Trepova, che con ogni probabilità non se la caverà come la nostra guida, l’unico cambiamento che si è prodotto riguarda solo il nome di Leningrado che è tornata a chiamarsi San Pietroburgo. Come ai tempi dello zar, nella Russia di un nuovo zar chiamato Putin.