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direttore Paolo Pagliaro

Non c’entra il vento di destra
Il problema è l’aria fritta

Paolo Pombeni

Troppo facile buttarla sulla storiella del vento di destra che spira in Europa e di conseguenza anche in Italia. La destra non vince perché cambia il vento, ma perché la sinistra si è troppo ridotta a presentare come sua principale offerta l’aria fritta. Questa è la lezione che emerge anche dalle ultime amministrative e specialmente dai ballottaggi.

Al netto del tema dell’astensione, sempre molto alta (ai ballottaggi ha votato il 49,6%), cosa che mostra come l’area della politica partecipata si restringa più o meno ai “militanti”, ci sono due sconfitti in questa tornata elettorale. Il primo, come hanno detto tutti, è Elly Schlein, la cui inconsistenza è sottolineata ormai anche dai commentatori simpatetici con la sinistra (noi lo dicemmo dall’inizio e ci siamo attirati critiche feroci). Il secondo, che invece è riuscito a rimanere nell’ombra, è Matteo Salvini.
Facile rilevare che il centrosinistra ha vinto solo a Brescia e a Vicenza (e in una passata prova a Verona), cioè dove c’erano candidati lontani dalle pose che vanno di moda con la nuova segretaria (che infatti è stata tenuta alla larga da quelle campagne elettorali). Non si può dire che altrove sia andato disastrosamente perché in genere è oscillato intorno al 45% e in certo casi ad un passo dal vincitore, ma si è trattato di una coalizione molto ampia, dove i Cinque Stelle sono stati insignificanti e dove c’è stata una grande frammentazione, certamente non sotto il segno delle battaglie da gauche caviar, come dicono i francesi, che sono il tratto della nuova segreteria.
Quanto a Salvini i numeri parlano abbastanza chiaro. Nel suo Lombardo-Veneto dove si aspettava un grande successo, è stato sconfitto sia a Brescia che a Vincenza, ma soprattutto la Lega ha raccolto percentuali più che modeste in comuni di zone che dovevano essere il suo feudo: 7,5% a Brescia, 6,4% a Vicenza. Certo si dirà che parte dei suoi voti sono finiti nelle liste personali del suo candidato sindaco, ma non è un bel vedere: significa che anche fra i leghisti sono più quelli che amano un candidato locale che non il loro cosiddetto “capitano”. Nelle altre città chiave il partito dell’esuberante vice premier raccoglie risultati modesti: con l’eccezione di Pisa dove ha il 16,3%, e a Massa l’11,3, a Siena c’è il 3,8, ad Ancona il 2,9, a Terni il 4,2, a Brindisi il 3,1. Non proprio risultati brillanti soprattutto confrontati con le performance di FdI.
Come si può leggere tutto questo? Sicuramente come un consolidarsi della leadership di Giorgia Meloni, ma anche della capacità sua e dei suoi collaboratori di lavorare sui radicamenti territoriali del partito. Così sarà in buona posizione sia per quel che riguarda la gestione del governo, sia per quel che riguarda la possibilità di giocare una sua partita sul tavolo europeo. Il suo problema è non montarsi la testa, cioè non farsi attrarre nel gorgo dell’accentuazione delle sceneggiate di parte. Deve ricordarsi che proprio questo è ciò che ha fatto capitombolare Salvini che pure aveva accumulato un bel tesoro di consensi all’inizio della passata legislatura. Il potere è una cosa delicata che va gestita con prudenza ed acume: il bullismo e la bulimia da occupazione dei Palazzi non portano bene.
Da oggi Meloni può tenere sotto controllo Salvini accentuando il rapporto con FI e con Tajani: le serve per la politica europea, ma le serve anche per dar corso al suo progetto di partito conservatore che deve allontanarsi dalle demagogie del leader leghista (magari con la speranza che in quel partito alcune componenti più capaci di analisi politica lo mettano almeno un po’ ai margini).
Più complesso è il discorso per il centrosinistra. Schlein cerca di cavarsela dicendo che è arrivata solo da due mesi e che è troppo poco per cambiare il verso alle cose. Sarebbe così se non fosse che si constata la sua modestia nel gestire un discorso politico degno di questo nome. Ovviamente c’è un riscontro drammatico al proposito. Lei è stata la vicepresidente e l’assessore al clima e in parte all’ambiente della regione Emilia-Romagna, e dunque avrebbe dovuto avere competenze e conoscenze per dire qualcosa sul dramma dell’alluvione che non può essere ridotto alle chiacchiere sul cambiamento climatico in corso. Ma nessuno ricorda un suo discorso significativo o una sua presenza sulla questione.
L’altro tema complicato in questa area è la formazione del cosiddetto campo largo o comunque lo si voglia chiamare. Che i Cinque Stelle si rivelino sempre più per un gruppo poco più che folcloristico appare evidente, il che significa che da un lato discutere sulle loro modeste utopie è poco utile e che dall’altro se lo si vuol fare si dovranno poi pagare loro prezzi spropositati (in questo sono abili come si è visto nel loro rapporto col centrodestra sulla distribuzione di cariche pubbliche). Il resto è una frammentazione di piccoli gruppi, talora molto piccoli, che però hanno molte pretese. Per tenere insieme questo blocco (che non sappiamo come uscirà dalla competizione per il parlamento europeo) ci vorrebbe oltre una buona leadership un progetto politico compiuto che non si vede all’orizzonte.
Naturalmente poi in politica tutto può subire accelerazioni o rallentamenti, non sappiamo come si evolveranno passaggi cruciali (guerra d’Ucraina, elezioni negli USA, nuovi equilibri in Europa, andamento dell’inflazione, ecc. ecc.), ma certo per quel che vediamo oggi al momento la destra-centro guadagna posizioni, mentre la sinistra-centro, che paga anche reclutamenti poco felici di classe politica, arranca e non si sa quanto se ne stia accorgendo.

(da mentepolitica.it)

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