di Paolo Pagliaro
Si chiama competitività, in sostanza è la capacità di un Paese di produrre ricchezza per la sua popolazione. Combinando centinaia di indicatori, viene misurata da un istituto svizzero che si chiama Imd, tenuto in grande considerazione da economisti e governanti di tutto il pianeta, un po’ meno dai popoli che in queste classifiche si riconoscono si e no.
Le graduatorie vengono compilate in base a dati statistici riguardanti ad esempio occupazione, prodotto interno lordo, spesa per sanità e formazione, ma anche apprezzamenti sulla coesione sociale, la corruzione, la globalizzazione, la qualità dei governi. Quest’anno i primi cinque posti sono occupati da Danimarca, Irlanda, Svizzera, Singapore, Paesi Bassi. Seguono Taiwan, Hong Kong, Svezia, Stati Uniti ed Emirati Arabi Uniti. La Cina è 21esima. La Germania è 22esima, la Francia 33esima e l'Italia 41esima. Si potrebbe dire “chi se ne importa” se non fosse che anche in base a queste valutazioni chi ha dei soldi da investire e del lavoro da creare decide di farlo in un paese piuttosto che in un altro.
Milano Finanza pubblica sabato un’analisi di Riccardo Gallo, presidente dell’Osservatorio delle Imprese dell’Università Sapienza, il quale – commentando la classifica – ricorda che in passato quasi tutti i nuovi governi avevano beneficiato di un voto di fiducia dei giurati di Losanna, Migliorarono le aspettative sull’Italia Prodi tra il 2006 e il 2007, Berlusconi nel 2010, Renzi nel 2015 Gentiloni nel 2018 e Draghi nel 2021. Questa volta non ci schiodiamo dal 41esimo posto. Significa che la strada di Giorgia Meloni è in salita, che i nodi sono strutturali, e le speranze non bastano. Dice Gallo che servirebbero riforme non qualsiasi, gradite a destra e osteggiate da sinistra o viceversa,
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