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direttore Paolo Pagliaro

Anche il generale
canta in coro

di Benedetta Lazzeri

Mai come negli ultimi anni è stato vivo e vivace il dibattito sulla libertà di espressione e di pensiero; molto al di là dei contenuti, è andata anche l’agguerrita discussione attorno a “Il mondo al contrario”, il libro del generale Roberto Vannacci uscito lo scorso agosto, che in uno scontro di slogan di varia provenienza, non ha fatto che girare attorno alla questione ormai protagonista di tutti i salotti pubblici e politici: fino a che punto può arrivare la libertà di ciascuno di manifestare il proprio pensiero?
Lungi dal voler mettere in discussione l’importanza della domanda, non posso fare a meno di notare un’omissione imperdonabile nella riflessione che la muove: il legame teoricamente e storicamente indissolubile della libertà di espressione con il concetto di opinione pubblica.
Per come siamo abituati a pensarla ed esercitarla, la libertà di pensiero è strettamente legata alla nascita delle democrazie liberali, anche se in verità il diritto alla libera espressione precede di molto la loro costituzione. E soprattutto la sua evoluzione come concetto filosofico e giuridico è totalmente scollegata dall’incondizionata – e a tratti disperata – autoaffermazione dell’Io che ha dominato la scena dell’Occidente negli ultimi trent’anni.
Ma questa possibilità illimitata di esprimersi dell’Io – di cui il generale fa ampio e legittimo uso - è davvero riportabile all’esercizio della libertà di pensiero? Ne dubito. La massificazione della comunicazione è stata oggetto di ampie riflessioni nel Novecento, e voci autorevoli sembrano suggerirci che poco o nulla di questa evoluzione passa per una singolarità scevra da ogni appartenenza che non sia quella alla propria personale esistenza. D’altra parte, ciò che sembra segnare la storia del diritto alla libertà di pensiero e di espressione è il suo legame con ciò che, nella modernità, diviene proprio voce e forma dell’appartenenza in senso politico, sociale e culturale: l’opinione pubblica.
È probabilmente John Locke il primo a dare una definizione di opinione pubblica che è in sostanza la possibilità per gli individui politicamente e giuridicamente riconosciuti quali cittadini, di formulare un giudizio critico rispetto alla segretezza che, fino a quel momento, aveva caratterizzato il potere.
A quell’unione delle singole coscienze che caratterizzava la collettività, veniva dato – lo ha spiegato magistralmente Massimiliano Panarari in una conferenza tenuta alla Fondazione Collegio San Carlo di Modena – il diritto di esercitare la legge morale a vaglio e controllo di quella civile, dello Stato. Società civile e Stato, sembrano essere questi i confini della libertà d’espressione che possiamo, allora, identificare come la libertà della collettività (in qualsiasi modo essa si configuri) di esprimere il proprio pensiero sull’operato di ciò che la contiene e la sovrasta, il governo.
Dalle gazzette illuministe, ai programmi televisivi e radiofonici del Dopoguerra, la libertà di espressione si confonde armonicamente con la possibilità della collettività di esprimere il proprio giudizio sul potere che la norma. Nondimeno, nulla di quel processo che aveva portato all’emancipazione del parere personale dalla silenziosa sottomissione della sudditanza, ha a che fare con la fuoriuscita disordinata della personalità particolare. Anzi, è nell’urlo delle singolarità sola che muore la collettività, che muore la possibilità delle individualità di esprimersi come cittadini, come membri di una comunità, ma soprattutto come comuni detentori di una legge morale condivisa. Allo stesso modo che nell’esercizio totalitario del potere, il messaggio dell’Imperatore non raggiunge mai il suddito, ma passa di messaggero in messaggero, si modifica, viene distorto, rimbalza tra le pagine social di politici vari e risuona nelle urla sgraziate di elettori ed utenti. Sbagliamo a credere di abitare l’era dell’esercizio del libero pensiero, come recita il titolo di un recente saggio di Francesca Rigotti, viviamo “nell’era del singolo”, nell’epoca delle totalità a sé stanti e tra di loro opponentesi. È l’epoca di Macbeth, del tragico eroe moderno talmente certo di sé stesso e del potere che ha sul mondo, da ritenere vana e inutile persino la realtà.

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