di Paolo Pagliaro
Le pensioni sono da molto tempo la componente principale della spesa pubblica. L’anno scorso il costo per lo Stato ha raggiunto i 300 miliardi, più del doppio di ciò che è costata la sanità. Cinquant’anni fa, la spesa pensionistica era il 9% del Pil. Adesso è il 15,6. Questo spiega perché i governi più disponibiili all’impopolarità – come quelli di Amato, Dini e Monti-Fornero – si siano ingegnati per tenere la spesa previdenziale sotto controllo. La novità è che ora ci sta provando anche un governo molto attento al consenso come quello Meloni-Salvini, lo stesso Salvini che fino a ieri arringava la folla sotto le finestre di casa Fornero per protestare contro la riforma firmata dalla professoressa torinese, da lui chiamata “la ladra di pensioni”.
Diciamolo: oggi fa un certo effetto vedere che la legge di bilancio del centro-destra si propone di restringere l’accesso al pensionamento anticipato, che era il punto centrale della riforma Fornero.
Ora come allora scendono in piazza le categorie penalizzate dalle nuove norme. Ieri è stata la volta dei medici, ma la protesta è destinata ad allargarsi perché la modifica delle aliquote di rendimento lascerà il segno sulle pensioni di 700 mila dipendenti pubblici.
Ci sono poi casi eclatanti, come quello dei 20 mila ex dipendenti della Banca di Roma – poi Capitalia, poi Unicredit – che si sono visto tagliare fino al 70% delle loro pensioni integrative. Operazioni finanziare spericolate e piani di riequilibrio previsti dalla legge hanno bruciato gran parte dei risparmi conferiti al Fondo. E qui, piu che il governo, si gioca una quota di credibilità il sistema bancario.
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