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Qualcosa cambia nella politica italiana?

di Paolo Pombeni

Sebbene valga il vecchio detto che una rondine non fa primavera, quando ne arrivano due qualche piccola speranza viene. La prima rondine è stato l’accordo Schlein-Meloni sulla mozione parlamentare per il cessate il fuoco a Gaza. Per quanto sia stato contorto, ha segnato il superamento del “non ci si parla” come vorrebbe un certo radicalismo dell’una e dell’altra parte. La seconda sarà la manifestazione unitaria in memoria di Navalny fatto morire, non si sa ancora come, nella detenzione siberiana. Interverranno partiti e sindacati, anche quelli che ci sono, ma senza esporsi (Lega e M5S mandano le terze file), comunque nessuno ha potuto tirarsi indietro. Non ci sentiremmo di dire che è tramontata l’era del radicalismo a prescindere, perché per quello occorreranno tempi non brevi: c’è da vincere la resistenza di un bel po’ di personaggi che nell’età del radicalismo hanno fatto il nido (con vantaggi non piccoli) e non sarà facile. Però, se ci riflettiamo, qualche ragione per avere un poco di speranza possiamo trovarla.
Quella parodia del giacobinismo che abbiamo conosciuto dalla vittoria di Berlusconi in avanti, a cui ha corrisposto una fiammata neo reazionaria che ci saremmo volentieri risparmiati, è stata possibile perché si era pensato che il mondo tutto sommato fosse fermo e stabile, per cui potevamo tranquillamente dedicarci ai conflitti generati dal crollo della vecchia repubblica dei partiti. Che poi questi conflitti siano scivolati molto spesso nello spettacolino politico è un fatto, per quanto abbia complicato il sistema.
Oggi il quadro è profondamente mutato. L’imperialismo russo scompagina le carte. Fino a due anni fa si poteva pensare che non si andasse al di là della ricerca da parte di Mosca di ritrovare un poco dell’antica potenza, ma senza mettere in discussione gli equilibri internazionali acquisiti. Con l’invasione dell’Ucraina si è compreso che Putin e il suo gruppo stanno posizionandosi su una linea di rimessa in discussione radicale degli esiti della seconda guerra fredda, quella che aveva portato al crollo dell’URSS. Non si tratta di sopravvalutare dichiarazioni propagandistiche, per quanto siano sempre dei segnali da tenere presenti, ma di considerare l’ostinazione con cui il nuovo zar è deciso a sfidare le regole che garantivano un qualche ordine al sistema internazionale (in primis la non tangibilità dei confini stabiliti, perché Mosca vuol tornare a che si consideri l’Ucraina un pezzo di Russia – che è una tesi del vecchio zarismo pre sovietico).
A questo già inquietante quadro si è aggiunto il riaccendersi della questione mediorientale. Appare sempre più chiaro che l’attacco di Hamas del 7 ottobre ai kibbutz israeliani di confine è stato un atto pianificato, con modalità orribili, per scatenare una reazione che incendiasse un’area vasta e magari avesse riflessi nelle opinioni pubbliche occidentali. Il calcolo si è rivelato esatto, nel prevedere tanto che una leadership israeliana fortemente compromessa con il fanatismo religioso non si sarebbe ritirata dal dare una risposta estrema, quanto che antichi pregiudizi in occidente contro il colonialismo israeliano avrebbero risvegliato un movimento pro palestinese che scivolava nel sostegno ad Hamas.
Poiché tutti si rendono conto che dietro questo conflitto si muovono interessi di ridisegno degli equilibri nell’area, a partire dal mai sopito neo imperialismo dell’Iran nutrito anch’esso di fanatismo religioso, le preoccupazioni per quel che può accadere cominciano anche nel nostro Paese a superare i confini delle contrapposizioni da talk show. La prospettiva di un disimpegno americano non è così peregrina, perché, anche qui al di là dell’incubo Trump, negli USA ci si chiede se valga ancora la pena di sostenere il peso del mantenimento dell’equilibrio internazionale. L’Europa se lo sta chiedendo, e il fatto che sempre più si parli di un problema di difesa comune da parte della UE, sino a far ipotizzare a Ursula von der Leyen la creazione di un commissario dedicato al problema, è un sintomo molto significativo di quanto progredisca il cambiamento di clima.
Chi ha un minimo di responsabilità nel considerare il futuro dell’Italia in un contesto del genere capisce che gli spazi per fare retorica di parte si stanno riducendo. Rimangono, ovvio dirlo, perché c’è la solita cascata di elezioni (europee e amministrative) e di conseguenza è più che mai viva la competizione per occupare tutte le possibili posizioni di potere, tuttavia ci si rende conto che ormai non si tratterà più di tranquilli feudi per raccogliere prebende e consensi, ma di posizioni che finiranno nell’occhio del ciclone. Per dire la cosa più banale, l’avvio di un serio programma europeo di difesa implica tensioni, raccolta di fondi (debito comune, ma non solo), impulso al settore dell’industria degli armamenti il che implica una bella torta da dividere e riflessi sul quadro generale delle nostre economie.
In un orizzonte come quello che stiamo intravvedendo non sarà certo il caso di continuare ad alimentare la scadente diatriba fra neogiacobinismo e neoreazionarismo, con tutte le varianti che questi desumono dalla storia del nostro Paese (scontri pseudo-ideologici, conflitti fra Nord e Sud, disequilibri sociali, e via elencando). C’è bisogno di una nuova politica, tanto a destra quanto a sinistra: non è proprio il caso di perdere l’occasione per chiudere la stagione delle lotte di fazione e per passare ad un serrato, ma costruttivo confronto sulle modalità per ricostruire l’equilibrio di un sistema politico italiano in grado di far fronte alle sfide turbinose di un mondo in transizione.
(da mentepolitica.it)

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