Gli animali ci parlano. Chiunque viva accanto a un cane, un gatto o altri animali di compagnia, è consapevole di questa ovvietà. Chi va per mare sa benissimo che i delfini vogliono giocare con la barca e la sua deriva e desiderano comunicare: a volte si avvicinano al bordo e ti guardano come per dire “dimmi…” e tu scambi lo sguardo e in dialetto (agli animali si parla in dialetto) rispondi “inizia tu…”.
Poi capitano ulteriori cose, più curiose. Quasi quotidianamente vado in bici da solo sulla ciclabile del Marecchia che fuori stagione turistica, al mattino - esclusi i week end - è poco frequentata. Su quella strada trovo un sacco di amici bestiali. In particolare sono in confidenza con un paio di falchetti che quando mi vedono iniziano i loro scherzi fatti di virata e cabrate, ma soprattutto arrivano un sacco di corvi, merli, gazze, upupe. Tutti volatili che non sempre hanno fama positiva nella cultura “pop”, ma se si scava in quella un po’ più profonda (vedi Ripa, Cattabiani e tanti altri) si scopre che sono parte integranti di miti, leggende complesse che variano da cultura a cultura. Essendo figlio di generazioni di cacciatori e allevatori (apparente contraddizione che non è tale) e vivendo nei pressi del Rubicone e nella “Romania” che resistette dopo il crollo dell’Impero, mi rendo conto che sto iniziando a pensare come gli àuguri o che, come direbbe il mio amico psichiatra Ugo, la pazzia finalmente si è palesata.
Fatto sta che ho la certezza che corvi e cornacchie - esseri incredibilmente intelligenti che sanno contare, si riconoscono allo specchio e che sono capaci di strategie simili a quelle di noi primati - siano i miei morti che mi vengono a trovare; mi dicono sempre qualcosa, che però non sempre sono in grado di interpretare.
L’altro giorno, sulla magnifica panoramica del San Bartolo, sui colli che si gettano a capofitto sull’’amarissimo’ Adriatico, una cornacchia - che ero certo fosse mia madre - mi fissava tenendo stretta nel becco qualcosa di splendente che somigliava ad una pietra preziosa. Razionalmente una pietruzza o il resto di cibo che brillava nel becco. Ma per il novello auspice non c’erano dubbi: la genitrice annunciava, finalmente, l’arrivo di un tesoro.
Poche ore dopo ero all’esterno di un Superstore per fare la spesa. Mi accorgo che non ho né 50 centesimi né un euro per “estrarre” il carrello ma ho una vasta raccolta di 10 e 20 cent. Sono vestito civilmente, pettinato e inizio a fermare alcune persone per chiedere se hanno da scambiare le monetine con un pezzo da 50 cent o un euro. A parte un paio di donne gentili che però non trovano monete nella caverna delle loro borse, gli altri scappano dicendo subito “no, no” terrorizzati. In questo momento, per pochi secondi, sono un barbone che li disturba, un reietto, uno scarto della società.
Il ragazzo che di mestiere raccoglie i carrelli nel parcheggio capisce la situazione e mi si avvicina. Estrae dalla tasca una piccola moneta di plastica gialla con strane dentature e me la porge.
“Tienila, serve a prendere il carrello”.
Lo guardo stupito e ingenuamente colmo di gratitudine: “Ti devo qualcosa?”
“Scherzi” risponde ridendo: “Così non hai più problemi, mi raccomando, non perderlo”.
Sono ritornato un essere civile, con il suo bel carrello in un Superstore dove con la carte di credito posso comperare ogni ben di Dio.
E mi torna in mente la cornacchia con la pietra splendente nel becco e la collego alla “moneta” di plastica gialla: è questo il tesoro? Il dono inaspettato?
E naturalmente parte lo stream of consciousness su tutti i doni inaspettati che abbiamo ricevuto o che ci sono stati negati, a tutti i tesori guadagnati, ritrovati, perduti o sperperati, alla profonda differenza sociale tra possedere una monetina da 50 cent o il non avere nulla, con tutto quello che consegue.
Sono tornato sulla panoramica e ho rivisto la cornacchia: mi sembrava che ridesse. Anche a mia madre piaceva scherzare. E fisso quella “monetina” di plastica gialla pensando all’assurdo che ci circonda.