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Quando eravamo giornalisti
Primo tempo: full!

Quando eravamo giornalisti <br> Primo tempo: full!

di Franco Fregni

La datata profezia sull’ultima copia cartacea del New York Times (anno più, anno meno) si è avverata. La scomparsa dei giornali coincide con il crepuscolo dell’Occidente. I giornalisti e i giornali - più o meno puri, più o meno sinceri, più o meno veri - sono stati i sacerdoti e la chiesa di questa epoca, iniziata con Gutenberg, arrivata all’apice con l’affermazione delle Democrazie Occidentali e finita con l’arrivo dei social, degli smartphone e dei big data.

 

Siamo entrati nel Cesarismo, con front man che rappresentano Imperi e che hanno alle spalle oscure e possenti burocrazie. La comunicazione fa parte di queste burocrazie, deve essere schierata, non esistono più spazi aperti, i campi sono recintati.

 

“La preghiera quotidiana dell’uomo moderno” non viene più recitata e anche la vera preghiera si pratica ormai solo nelle catacombe, come aveva già compreso Ratzinger.

 

Alcuni di noi sono stati gli ultimi chierici (traditori o meno) dell’epoca che va terminando. L’impressione è di essere piombati in un western crepuscolare o nella “trilogia della frontiera” di McCarthy dove i cowboy scendono in Messico alla ricerca del Logos che dà un senso alla vita.

 

E mentre scendiamo verso Coahuila, in cerca di nuove avventure e di un’esistenza autentica, ricordiamo con un sorriso quell’epoca di chierici e di giochi delle perle di vetro. Ricordiamo quel simulacro di Civiltà con regole scritte da infrangere e non scritte da rispettare, con un’etica e una morale, spesso trasgredite, di quella casta di sacerdoti. Alcuni di noi si sentivano come monaci guerrieri appartenenti ad una particolarissima regola che prevedeva lavoro estenuante e vita totale. Un nostro eroe morì di notte, colpito da infarto sul bancone della tipografia. Era la morte che molti di noi sognavano. Pistole alla mano, contro i cattivoni. Adesso quella morte non sarebbe più possibile perché non esistono più quelle tipografie.

 

Allora ancora ero un giovane chierico e vagavo tra le strade del quartiere Prati a Roma, con le mani in tasca e il bavero della giacca alzato. Un’avventura era finita e come Dante mi stavo inoltrando nella selva oscura della città eterna e, di seguito, di tante altre città. Al mio fianco c’era Virgilio che pensava sempre a nuove opere. Il problema è che, in attesa di un nuovo ingaggio, scarseggiava il vil danaro e vivevo in ristrettezze e grazie all’uso accortissimo di una “cartina magica”.

 

Quella della “cartina magica” era una grande trovata poetica di Virgilio. Una volta, in un caso di estrema urgenza, in piena notte, all’esterno del Casinò di Venezia, con la fortuna che andava e veniva, c’era bisogno di un’iniezione di buona sorte e Virgilio, col suo tipico tocco d’ingegno, mi chiese se avevo ancora “la cartina magica” che altro non era che la tessera del bancomat. Una volta fatto il prelievo il poeta esclamò: “Che bello il capitalismo, metti una carta di plastica in un muro ed escono soldi”.

 

La magia della “cartina” si propagò nell’etere e il poeta uscì dall’elegante e decadente luogo di perdizione con una sostanziale “patta”.

 

L’educazione del chierico passava anche per le smazzate di poker, e con tale maestro non potei fare a meno di acquistare una certa pratica.

 

La situazione però era diventata più che precaria, la cartina magica poteva essere alimentata solo da bonifici della munifica genitrice, cosa che sarebbe stata per me intollerabile.

 

Un pomeriggio Virgilio, laconico, mi preallertò: “Preparati, stasera grande serata di poker”.

 

“Hai trovato i polli da spennare?”

 

“Vediamo”

 

Entrammo in una sontuosa magione del Lungotevere dove un’allegra compagnia di famosi sacerdoti del giornalismo ci attendeva. Per me, giovane chierico, l’emozione della partita era superata dal trovarmi di fronte a firme che leggevo avidamente ogni mattina.

 

Sul tavolo verde iniziò la partita con “manelle” di poco conto. Ad un certo punto Virgilio si fece da parte, lasciandomi a fronteggiare quei volti noti che rappresentavano i miei sogni di gloria.

 

Alcune mani fortunate, altre meno. A un tratto, con l’iniziale distribuzione delle carte, mi entrano tre donne. Entro in modalità ghiaccio. Dopo le scaramucce iniziali si deve decidere sul cambio della carte. Oltre alle tre donne ho un otto e un dieci. Decido di tenere l’otto - mio numero fatale, simile al simbolo dell’infinito, doppio del tre, numero perfetto - per far credere a tutti gli altri quel che vogliono (“Ha un poker?” - “No” “Tenta la scala?” - “Probabile”. - “Bilaterale o ad incastro?” - “Ha un tris e cerca senza costrutto che entri il poker o full?” - “Comunque strategia del cazzo”). Era come se vedessi le rotelline dei loro cervelli muoversi all’impazzata. Arriva la carta richiesta: è un otto. Full!

 

Ghiaccio su ghiaccio. Il rilancio deve essere sostanzioso ma non eccessivo, un’esca per i pescioloni che ho di fronte.

 

Funziona, mio primo rilancio importate, secondo rilancio molto forte, terzo rilancio impossibile: è un anno del mio stipendio. Lo ha presentato il più nobile dei presenti, che mi guarda con un sorriso appena accennato.

 

Non riesco più a far affluire ghiaccio nella mia testa, nel sangue e nei nervi. Una colata di lava incandescente s’impossessa del mio corpo.

 

Mi passano davanti il prete, la chiesa, l’educazione cattolica, l’etica inflessibile della mia famiglia, il pane che è giusto solo se guadagnato col sudore della fronte e, ancor peggio, vedo già la galera morale che mi attende nel caso in cui perdessi quella mano.

 

Anche Virgilio sente arrivare il calore che emana dal mio corpo, è seduto di fianco a me e mi tira un calcione che per poco non mi spezza la gamba. Significa “Gioca”.

 

“Ci sto, Vedo - dico mezzo balbettando - ma non ho con me i soldi. Vi fidate?”

 

“Certo, sei amico di Virgilio”.

 

Scendono i punti, bellini, ma niente in confronto al mio full di donne e otto. Cerco di darmi un contegno nel raccogliere quella impressionante messe. Resto al tavolo fingendo di giocare, ormai è andata. Capisco di non essere un vero giocatore, un vero giocatore avrebbe continuato, fino alla conquista o alla perdita del mondo intero. Ma c’è qualcosa che non mi torna.

 

La serata è finita, per un po’ sono a posto, posso tornare ad essere uno zingaro di lusso, usciamo contenti e ci salutiamo.

 

Ma il dubbio continua a rodere: non è che mi hanno fatto vincere apposta? E’ stata una beneficenza, mascherata da gioco, per evitarmi la vergogna del chiedere? Era un’usanza bellissima e ipocrita dei vecchi chierici del giornalismo?

 

Ho ancora quel dubbio, e nel dubbio non ho più giocato sul serio a poker.

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