Nel 2003 viene pubblicato in Francia “L’epoca delle passioni tristi” (edito in Italia da Feltrinelli), un saggio destinato ad avere grande successo all’interno della riflessione filosofico-sociologica negli anni a venire. I due autori, gli psicanalisti Miguel Benasayag e Gérard Schmit, sostengono una tesi semplice e allo stesso tempo complessa nelle sue implicazioni: i giovani sono infelici perché non vedono nel futuro una possibilità, bensì una minaccia. In altre parole - quelle che Galimberti prende in prestito da Nietzsche – al futuro inizia a mancare lo scopo, il fine.
I giovani si trovano in un tiro incrociato tra un passato percepito come “migliore”, un avvenire incerto e un presente sovraccarico di contraddizioni; tra consumo sfrenato, crisi economica, informazioni illimitate, totale assenza di censure, sfarzo, miseria, la realtà restituisce un’immagine caotica.
La conseguenza – continuano i due studiosi – è un’orizzontalizzazione di tutti i rapporti, un progressivo venire meno di qualsiasi autorevolezza schiacciata da un’unica forza autoritaria: il denaro.
Seppur più anziano, questo breve saggio sembra parlare della più vicina contemporaneità, un campo di battaglia arido, defraudato quasi di ogni contenuto culturale e sentimentale, dove una gioventù per lo più triste lotta, assonnata, per raggiungere non si sa bene cosa. Già, perché i modelli che le si propongono sulle sempre più numerose piattaforme social, sono certamente potenti, sono conosciuti e sono ricchi, ma sono – o almeno, così sembra – fragili, tristi. Chiara Ferragni, Fedez, Tommaso Zorzi, Belen, Aurora Ramazzotti, Clio Makeup, quante volte siamo stati spettatori dei loro crolli emotivi e personali? Qualsiasi siano le ragioni delle loro lacrime - non è questo il luogo per commentarle, il dispiacere altrui è sempre legittimo, anche qualora non riuscissimo a capirlo o condividerlo -, c’è sempre un minimo comune denominatore: la necessità (pare) di mostrare la propria fragilità, che è (così sembra) la caratteristica principale di tante esistenze, tanto diverse. Viene condiviso tutto, l’agio, il lusso, l’amore, persino l’euforia, tutto ad eccezione della serenità, anzi, quando si raggiungono denaro e notorietà – le nuove armi del potere – si è finalemte nella posizione di mostrare la propria infelicità.
A molti anni dall’uscita del libro di Schmitt e Benasayag, ci troviamo nell’epoca del culto delle passioni tristi, in un rito collettivo nel quale la felicità sembra uno spettro da sconfiggere.
Pensiamo al caso di Kate Middleton: bella, fortunata e sempre in loco, era già stata vittima di qualche freccia avvelenata, senza mai toccare, tuttavia, i “bassi” della scorsa settimana.
Dopo l’annuncio, a gennaio, di un male non ben specificato, la principessa di Galles era tornata sulla pagina social della coppia reale con una fotografia che la ritraeva, allegra e sorridente, abbracciata ai tre figli. Belli, eleganti e felici. All’ennesima foto di principessa e principini, neanche Kim Kardashan ha retto: doveva esserci il complotto. Sì, perché dopo anni di bianchi sorrisi, la storia di due futuri sovrani con i loro figli sereni e tranquilli non se la beveva più nessuno, era ora di tirare fuori dall’armadio lo scheletro! E dopo critiche, urla e sbeffeggiamenti, arrivati alla possibilità che lo scheletro fosse vero (quello di Kate), persino la principessa del Galles ha ceduto.
In un video relativamente breve, semplice, con aria dimessa e dignitosa, venerdì scorso Kate Middleton spiegava la triste vicenda che, ormai da qualche mese, la vede alle prese con operazioni e cure atte a sconfiggere un tumore . Dal breve passaggio sul desiderio – infranto, direi - di trattare la questione privatamente, è evidente che la decisione di rendere nota la vicenda è tutt’altro che spontanea, ma obbligata come la remissione di un grave peccato.
Neanche a dirlo, dopo il video: scuse a non finire, condivisioni del post, lacrime, preghiere, insomma, tristezza. Finalmente, il principe William diventa un povero marito impaurito, i principini dei possibili orfani e Kate una vittima, è tutto al proprio posto. Finalmente, i potenti e fortunati sono anche tristi.
Se rileggiamo la storia all’indietro, dal video alla fotografia, individuiamo facilmente il peccato di Kate. La felicità.
Al futuro manca lo scopo, al presente, il contenuto. Qualsiasi sia stata la causa delle tante lacrime piante sugli schermi dei nostri telefoni, a quegli sfoghi, ai like, agli insulti, è mancato il fine. Dalle riflessioni di Benasayag e Schmitt, la realtà dei più giovani si è andata radicalizzando attorno a questa orizzontalità piatta che, nata dalle macerie del senso, ha fatto della mancanza il principale contenuto. Un circolo vizioso infinito che ruota attorno ad un’esteriorità vuota, della quale la tristezza rassegnata è il sostrato e il linguaggio; tutto quello cui posso aspirare è avere la forza (economica) e la notorietà per manifestarla, senza dovermi preoccupare di riempirla, di contenuto, di senso.
L’infelicità è il male e la moneta di scambio del Secolo.
Non potrebbe essere altrimenti perché, nell’epoca delle passioni tristi, il rischio della felicità è alto: doverla condividere, veramente.
(© 9Colonne - citare la fonte)