di Paolo Pagliaro
Con sprezzo del pericolo e incurante della propria incolumità politica, il viceministro dell’economia Maurizio Leo ha riportato in vita il redditometro, cioè quel meccanismo che dovrebbe servire a comparare le spese di una famiglia con il reddito dichiarato, e a segnalare eventuali incongruenze quando i due valori sono troppo distanti.
Un modo per approfondire la situazione fiscale di chi dichiarandosi indigente vive nel lusso e non paga le tasse.
Il redditometro ha una storia antica. Le sue prime apparizioni nell’ordinamento italiano risalgono al 1992, ma poi ricorsi, ripensamenti e riscritture ne hanno fatto un’arma spuntata, con poche centinaia di accertamenti ogni anno. Tutto era sembrato cambiare nel 2012, quando – con Monti a Palazzo Chigi - l’Agenzia delle entrate fece ricorso al redditometro per verificare la fedeltà fiscale di 37.000 contribuenti. In quell’anno vi furono però feroci polemiche per i controlli della Guardia di Finanza a Cortina d’Ampezzo e lì cominciò il declino del redditometro, oggetto di una campagna denigratoria, orchestrata in nome di sacri principi come il diritto alla privacy e la presunzione di innocenza. In realtà cancellando il redditometro il fisco si arrese ai contribuenti che dichiaravano redditi irrisori rispetto al tenore di vita e ai beni posseduti.
Tradizionale bestia nera della destra, ora il redditometro torna d’attualità per iniziativa di un vice-ministro che oltre ad essere parlamentare di Fratelli d’Italia è anche uno dei più affermati tributaristi del Paese. Nel suo caso la competenza sembra aver avuto il sopravvento sulla disciplina di partito, almeno per ora. E questa è davvero una notizia.