di Paolo Pagliaro
Chi si occupa di lavoro e disuguaglianze difficilmente potrà prescindere da uno studio pubblicato oggi dall’Osservatorio delle Imprese dell’università Sapienza. I dati del rapporto sulla dinamica dei redditi nell’industria – firmato da cinque accademici - sono per molti aspetti sconcertanti: rivelano che la grande ricchezza prodotta in questi anni è stata distribuita in modo decisamente iniquo.
In trent’anni i salari reali sono cresciuti dell’1% contro il 32% dei paesi Ocse, e questo si sapeva. Meno noto era il fatto che il lavoro fosse rimasto povero nonostante il decollo di fatturato e profitti, aumentati di un terzo rispetto al periodo pre Covid. Analizzando i dati Mediobanca, Riccardo Gallo - che dirige l’Osservatorio - rileva che la quota di valore aggiunto che ha remunerato il lavoro è calata di ben 12 punti percentuali tra il 2020 e il 2023, mentre quella dell’utile netto è aumentata di 14 punti. Dunque, se l’occupazione è stata salvata, i salari sono stati penalizzati a tutto vantaggio del capitale di rischio dei soci, i quali oltretutto negli ultimi quattro anni hanno reinvestito nelle loro società solo il 20% degli utili e se ne sono invece distribuiti l’80% in dividendi, sottraendoli all’ammodernamento delle fabbriche.
Il tema è di viva attualità anche perché è legato al rinnovo dei contratti. Dei 5 milioni e 800 mila lavoratori dipendenti di aziende aderenti a Confindustria, il 13% ha un contratto che scadrà entro la fine di quest’anno, il 53% ne ha uno scaduto negli ultimi 12 mesi, il 10% ne ha uno scaduto da oltre due anni. I rinnovi dovrebbero essere l’occasione per ridurre la penalizzazione del lavoro.
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