Due anni fa, nel settembre del 2022, quando il numero delle persone morte in carcere era arrivato a 59, in copertina della nostra rivista “Voci di dentro” titolammo “Non chiamateli suicidi” ed era un atto di accusa a uno Stato bugiardo e indifferente alla sofferenza di migliaia di persone. Oggi, con i morti che sono arrivati a 75, apriamo la rivista con l’immagine di una cella scattata nel 2015 da Francesca Fascione al Don Bosco di Pisa e con il titolo “La scena del crimine”. Perché questo è, perché davvero oggi quella cella del carcere, quelle 75 celle sono la scena del crimine, cioè il luogo nel quale si compie un altro crimine: la morte di persone per le quali - pur colpevoli di reati - il nostro Paese non prevede in alcun modo la pena capitale.
Ma non solo. Scena del crimine è riferibile a tutta l’istituzione carcere, perché lì, in tutta l’istituzione, si materializza quello che non si deve materializzare, si rende cioè evidente il suo DNA: violenza dentro le sue mura, mancato riconoscimento della dignità della persona e dei suoi diritti (affetti, salute, lavoro), tortura e morte occulta come già dieci anni fa Papa Francesco aveva definito la pena dell’ergastolo, la fine della speranza. Scena del crimine diventa il luogo che si converte in delittuoso, nella doppia valenza di contenitore e attore di delitti, perché ogni atto contrario al senso di umanità e ogni violenza inflitta è incompatibile con la rieducazione che la Costituzione sancisce senz’altra finalità nell’art. 27. È atto illegale.
Queste morti e quelle degli anni passati, le sofferenze dei tanti detenuti che si tagliano per protesta, che tentano il suicidio e che vengono salvati in extremis dagli agenti di polizia penitenziaria (anche loro in grave sofferenza, nella realtà abbandonati e ignorati) e l’assenza di misure vere e immediate svelano tutte il paradosso di questa istituzione (peraltro noto a coloro che si occupano di carcere e giustizia, eccetto i politici che ragionano per interesse elettorale). Un paradosso rappresentato ad esempio dall’idea di voler fare rieducazione in un ambiente chiuso e isolato, vietando a coloro che hanno compiuto un reato il contatto con l’esterno “virtuoso” e con-finandoli in un luogo spesso malsano tra umiliazioni e degrado, spoliazione di ruoli e mortificazione fino alla cancellazione dell’identità. E ancora, ecco che il carcere (e gli stessi decreti sicurezza) diventa anche la messa in scena di una rappresentazione - teatrale verrebbe da dire - che non risponde affatto alla realtà: una finzione che si costruisce attraverso l’identificazione e l’etichettamento del “nemico” che suo malgrado diventa l’attore sul palco della scena e al quale restano ben poche possibilità: adattarsi alla rigida tabella di marcia (a che ora mangiare, a che ora alzarsi dal letto, con chi stare e cosa fare durante la giornata) e assumere e fare proprio lo stigma oppure difendersi costruendosi addosso una corazza che diventa anche arma per offendere. Oppure stringersi un cappio al collo. Tutte parti da recitare in questo teatro dell’assurdo. Teatro della violenza. Scena del crimine.