di Paolo Pagliaro
Ogni epoca ha il proprio politicamente corretto, ma negli ultimi anni i confini si sono molto dilatati e le energie che prima si mettevano nella denuncia delle ingiustizie sociali ora si impiegano per contrastare le ingiustizie vere o presunte del linguaggio. Non è un grande passo avanti. Il sociologo Luca Ricolfi nota che si è enormemente ampliata la distanza fra i ceti istruiti, ipersensibili alle questioni di linguaggio e alle battaglie per i diritti civili, e i ceti popolari. Ricolfi ha pubblicato per la Nave di Teseo una documentata requisitoria contro gli eccessi, gli integralismi e la ridicolaggini di quello che nel titolo lui chiama “Il follemente corretto” , una promessa di inclusione che in realtà ottiene l’effetto opposto. Come succede per esempio con gli acronimi che partendo da LGBT si arricchiscono via via di nuove vocali e nuove consonanti per indicare ogni singola minoranza sessuale degna di protezione, creando stringhe alla fine incomprensibili per i non specialisti. Una volta, scrive Ricolfi, il politicamente corretto era semplice: non devi dire negro, meglio se dici nero; non devi dire cieco, meglio se dici non vedente. Adesso l’asticella si è alzata e le compagnie aeree non danno più il benvenuto a bordo alle signore ai signori, sostituiti dal neutro plurale passengers.
Tutto questo galateo linguistico finisce con l’infastidire anche i diretti interessati. Luigi Manconi, un altro autorevole sociologo, ha scritto un libro emozionante sulla sua vita privata della vista. Il titolo è “La scomparsa dei colori”, l’editore Garzanti . Scrive Manconi:” io non sono ipovedente, bensì cieco. E così voglio essere chiamato. Cieco mi sembra infinitamente più vero; e, come usa dire oggi, più identitario”.