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Buon compleanno
Fight Club

Buon compleanno <br> Fight Club

di Benedetta Lazzeri

Quasi 20 anni fa, nel 2005, usciva negli Stati Uniti Frackonomics, un saggio destinato ad un enorme successo, forse addirittuta superiore a quello che i due autori, Steven D. Levitt e Stephen J. Dubner, si sarebbero aspettati. Il libro, il cui sottotitolo originale The hidden side of everything è molto più evocativo della sua traduzione italiana (Il calcolo dell’incalcolabile) rispondeva al semplice quanto intelligente desiderio dei suoi ideatori di dimostrare come il funzionamento del nostro tempo fosse perfettamente riportabile a modelli economici, svelando, così, la faccia perfettamente calcolabile e controllabile della quotidianità. Questa sagace pubblicazione (che vede la traduzione italiana a cura di Tito Boeri) spiega perché la maggioranza degli spacciaotori viva a casa dei genitori, fornisce alle famiglie una tecnica per invogliare i figli a leggere, dimostra che il nome di battesimo è una caratteristica che condizionerà l’intera nostra vita. In qualche modo, pur nell’ironia dei casi di studio analizzati, Freackonomics ci racconta una realtà dai risvolti potenzialmente (?) pericolosi, una veglia che, nel suo concetrarsi solo sul meccanismo dello scambio e sulla speranza di un ritorno, somiglia molto più ad un incubo.
Venticinque anni fa, precisamente l’11 settembre 1999, usciva nelle sale americane Fight Club, capolavoro di David Fincher tratto dall’omonimo romanzo di Chuck Palahniuk, forse consapevole del fatto che non si sarebbe mai fatto dimenticare.
Irriverente, divertente, violento, surreale, la notizia del 25esimo compleanno di questo film cade con perfetto tempismo: forse una delle più famose ed eccentriche critiche della contemporaneità al capitalismo compie gli anni in un giorno che si perde nel frenetico susseguirsi di ore che sono note in una sinfonia di accumulazione e consumo che ci coinvolge, tutti e continuamente, nell’ingenua illusione di poterla controllare.
È bene chairirlo subito, questa (magrittianamente) non è una critica al capitalismo. Lo sappiamo bene, ormai, criticare il sistema economico di cui si è parte apre la strada a riflessioni – che siano queste di natura economica, politica o morale -  della più alta caratura, ma difficilimente ottiene la forza di una contestazione che non sia solamente teorica. Tuttavia, tale ricorrenza impone almeno qualche considerazione. Innazitutto una constatazione banale: il compleanno di questo cult movie cade nello stesso giorno in cui piangiamo la distruzione del World Trade Center, l’emblema del potere economico occidentale sul mondo. Non solo, questo quarto di secolo si festeggia in tempi bui, forse più oscuri delle notti senza sonno che distruggono Edward Norton, protagonista del film e dell’incubo marchiato Ikea che tanto si avvicina a quello raccontato dal libro che ha dato inizio alla nostra riflessione. Che ci sia un legame tra la patologica ricerca della massimizzazione delle risorse e l’ostentata insoddisfazione che abita la nostra quotidianità, è ormai chiaro. Ce lo ricordano psichiatri e intellettuali e ce lo ricordano le nostre giornate che, spesso, come nel capolavoro di Fincher, sembrano correre il rischio di diventare ogni giorno la fotografia sbiadita di quello precedente. Quello che, invece, sembra meno evidente ai più è la sempre più scarsa rilevanza che la vita e le sue forme ottengono di contro alla centralità del denaro, che continuamente si ripropone quale unico protagonista della frenetica danza della quale la realtà è palcoscenico. Ma cosa stiamo sacrificando per partecipare a questo ballo? L’uomo sta rinunciando alla politica, sta progressivamente abbandonando quello spazio plurale all’interno del quale egli esiste non rispetto ad un mezzo (il denaro, per esempio), ma rispetto ad un fine. Che cos’è la politica? È questa la domanda che dobbiamo farci per comprendere un’affermazione che – ne sono certa – in un’epoca senza scopo non sembra che un inutile e presuntuoso sofismo. La politica è – parafrasando le parole del suo più alto teorico, Aristotele– la società che si costituisce sulla base dell’unico volere dei suoi molti partecipanti, l’uno che si struttura in funzione della coincidenza dei più verso un unico fine. Così come volontariamente lo sposiamo, allo stesso modo decidiamo di rinunciarvi: assottigliando di giorno in giorno lo spazio dedicato alla politica, assoggetando quest’ultima al potenziamento massimo del mezzo, l’uomo sta, a tutti gli effetti, rinunciando al fine. Ancora una volta è il film di Fincher a venirci incontro nel difficile tentativo di spiegare un concetto – quello di scopo, di finalità – la cui pregnanza si è persa nell’epoca del consumo sfrenato del mezzo. La trama del lungometraggio, avulsa dal significato che vuole veicolare, è semplice: un uomo perfettamente inserito in un sistema di lavoro-guadagno-consumo decide di voler interrompere la catena e va a vivere con uno stravagante sconosciuto di cui non conosce nulla se non la cosa più importante: lui, nella catena, sembra non esserci mai rimasto incastrato. Insieme, i due, fondando un club nel quale vigono regole di coesistenza ferree, da rispettare pena la cacciata e i cui affiliati sono accumunati da un fine che è esattamente quello che regge La Politica di Aristotele: i membri del Fight Club vogliono vivere bene. Certo, la modalità con la quale i protagonisti del film (e del libro) riprendono possesso delle proprie vite è singolare e la liberazione della e nella violenza paradossale e volutamente provocatoria, ma lo scopo resta. Ci sono delle forme che la vita assume – questo ci racconta Fight Club – che la particolarità dell’economia, cioè della capacità di gestione quotidiana della proprietà, non può assumere né esaurire. Ora, cerchiamo di non confonderci, la famiglia, le associazioni di lavoratori, così come lo stesso apparato economico sono società; tuttavia, e qui sta il vero discrimine, la politica è quella coesistenza (koinonia, in Aristotele) che raccoglie tutte le altre e che non ha un fine specifico, particolare, ma che anzi è soggetta a quel fine che comprende tutti gli altri: vivere bene, appunto. Sì, perché quello che ci insegna lo strampalato protagonista di Fight Club è qualcosa che ci siamo scordati da tempo, e cioè che la possibilità di soddisfare i bisogni non coincide con una vita degna di essere vissuta. Certo, ci si avvicina molto - non ha nessun senso essere ipocriti - ma non ci si confonde. In altre parole: vivere e vivere bene non sono sinonimi e, forse, mai come in questi anni ne abbiamo avuto dimostrazione. È un tempo, il nostro, abitato da giovani infelici, da diseguaglianze sempre più grandi, da disordini mentali, da disperazioni di tutte le età e le provenieze. Un tempo schiavo dell’efficienza e dell’utilità, ma nel quale queste due prerogative fondamentali sembrano perdere di giorno in giorno la loro forza positiva, intrappolandoci in un sistema del fare che lascia indietro tanto dell’umano, troppo. Forse pensava ad Aristotele Kant quando prescriveva di vedere l’uomo “sempre anche come fine e non solo come mezzo” e, magari, un po’ a Kant pensava Tyler Durden quando, seduto ai tavolini di una squallida tavola calda, diceva ad un Edward Norton ignaro che, in fondo, un piuminio è una coperta, “solo una coperta”.

(© 9Colonne - citare la fonte)