di Paolo Pagliaro
Quasi tre anni di combattimenti in Ucraina, il pogrom in Israele, la rappresaglia feroce contro i palestinesi ci hanno restituito familiarità con la guerra. Non accadeva da molti anni, per i più giovani è la prima volta. In apparenza siamo spettatori, consumatori di tragedie altrui. In realtà sentiamo che la questione ci riguarda tutti e da vicino.
Al ritorno della guerra ha dedicato un libro non effimero il filosofo Umberto Curi. Nel suo “Padre e re”, edito da Castelvecchi, Curi spiega perché il significato di parole come guerra e pace si stia progressivamente modificando e complicando. E perché adesso, con l’opzione nucleare, non sia più possibile guardare alla guerra come prosecuzione della politica con altri mezzi. Non sarà più possibile, alla fine, distinguere il vincitore dal vinto.
Curi cita Freud, che dopo Sarajevo scrive: “Fintanto che le condizioni di vita dei popoli saranno tanto diverse e l’astio fra essi tanto profondo, la guerra non si lascerà sopprimere”.
E poi cita Bush, che il 24 giugno 2002 dice: “Il tenore di vita dei cittadini americani non è negoziabile”. Queste parole – osserva Curi - prefigurano una situazione di guerra permanente. La perpetuazione di un regime di privilegi per pochi e di indigenza per molti.
La conclusione è persino ovvia: se si vuole un mondo più sicuro, è indispensabile adoperarsi affinché esso sia più giusto.