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Riduzione dei contributi
la via italiana al socialismo?

Riduzione dei contributi <BR> la via italiana al socialismo?

di Marcello Bianchi

Ci risiamo. Ancora una volta, il problema del riequilibrio tra capitale e lavoro non viene affrontato, come si dovrebbe, costruendo una strategia di rifondazione delle relazioni industriali, ma invocando un intervento normativo. Ancora una volta, l’intervento normativo a favore del lavoro viene basato su un incentivo economico a carico dello Stato. Ancora una volta, tale incentivo viene individuato nella riduzione dei contributi previdenziali.
Va in questa direzione anche la recente proposta di legge sulla riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario, che ha tra i primi firmatari i segretari dei partiti del “campo larghetto” della sinistra, cioè Pd, 5 Stelle e Alleanza Verdi-Sinistra. La proposta intende favorire la stipulazione di contratti tra le imprese e le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale, volti alla definizione di modelli organizzativi che comportino una progressiva riduzione dell’orario normale di lavoro fino a trentadue ore settimanali, a parità di salario, e che siano accompagnati da investimenti nell’ambito della formazione e dell’innovazione tecnologica e ambientale.
L’incentivo consisterebbe nell’esonerare le imprese che stipulano tali contratti dal versamento dei contributi previdenziali, per la durata prevista dai medesimi contratti e in proporzione alla riduzione di orario di lavoro concordata, fino a un massimo del 30% del totale dei contributi, percentuale che sale al 50% per le PMI e al 60% se coinvolge lavori usuranti.
Quello che colpisce non è solo l’ingenuità delle motivazioni, secondo cui la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario porterebbe benefici che, partendo dalla produttività e dall’occupazione, arriverebbero alla felicità individuale e al cambiamento climatico, ma soprattutto l’irresponsabile accollamento degli oneri di questa “battaglia di civiltà” a carico del sistema previdenziale, come se questo fosse un salvadanaio disponibile per ogni sogno progressista e non un fondamentale meccanismo di welfare soggetto, come tutti i sistemi, alla necessità di un duraturo equilibrio economico. Questa strada è stata aperta dall’unanime consenso che da tempo gode la questione della riduzione del cuneo fiscale per i lavoratori dipendenti che, da un lato, rappresenta la palese rinuncia ad affrontare il problema dei bassi salari sul piano contrattuale, dall’altro una vera e propria contraddizione in termini per chi richiede un miglioramento del welfare pubblico.
D’altra parte, prendendo per buone le finalità della proposta di legge, compromettere la stabilità del sistema previdenziale sembrerebbe essere un sacrificio contenuto a fronte dei suoi benefici attesi. Secondo l’art. 1 della proposta, la progressiva riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario, infatti, consentirebbe di: - facilitare la conciliazione dei tempi della vita privata con quelli del lavoro; - promuovere le condizioni che rendono effettivo il diritto al lavoro; - rimuovere gli ostacoli che impediscono la partecipazione di tutti i cittadini all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese; - favorire lo sviluppo tecnologico, l’aumento dell’occupazione e l’incremento della competitività delle imprese; - incoraggiare l’aggiornamento delle competenze dei lavoratori.
In realtà, il conseguimento di gran parte di questi benefici è tutt’altro che scontata, in quanto dipende sostanzialmente dal saldo tra il sicuro aumento dei costi del lavoro per le imprese e l’eventuale aumento di produttività. Se questo saldo non fosse positivo, infatti, non solo non si realizzerebbero i benefici attesi, ma potrebbero derivarne effetti negativi per i lavoratori interessati, in termini di minori possibilità di aumentare i salari in futuro e della stessa salvaguardia del posto di lavoro. Gli studi realizzati sulle esperienze di riforma sin qui fatte per via normativa sono tutt’altro che incoraggianti: secondo una recente analisi (Batut, Garnero, Tondini, “The Employment Effects of Working Time Reductions: Sector-Level Evidence from European Reforms”. IZA Discussion Paper No. 15566) le riforme normative di riduzione dell’orario di lavoro realizzate in Europa tra il 1995 e il 2007 non hanno avuto effetti significativi sulla produttività del lavorò né sull’occupazione.
Dubito che un sostegno pubblico basato su una generosa riduzione degli oneri previdenziali possa essere di per sé sufficiente a realizzare gli obiettivi che ci si pone, data la sua inevitabile temporaneità a fronte del cambiamento strutturale e difficilmente reversibile del modello organizzativo che l’adozione di siffatti contratti comporterebbe.
È lecito poi interrogarsi sulla opportunità di introdurre un meccanismo che favorisce solo alcune imprese: quelle in cui il sostegno pubblico è effettivamente in grado di renderne conveniente l’adozione, rispetto a tutte le altre, sia quelle per cui il sostegno non è sufficiente, sia quelle che avessero già adottato spontaneamente misure di quel tipo.
Peraltro, la proposta non si limita a incoraggiare la stipula di contratti collettivi per la riduzione dell’orario di lavoro, che necessariamente richiedono il consenso di entrambe le parti, ma sembrerebbe introdurre una clausola risolutoria nei casi di assenza di tale consenso, attribuendo a un referendum dei lavoratori, richiesto dalle organizzazioni sindacali più rappresentative (la cui identificazione è un altro tema aperto ricorrente di queste proposte normative), il potere di imporre unilateralmente la validità del contratto. Una sorta di autogestione di dubbia legittimità. In conclusione, anche a prescindere dalle perplessità sul continuo ricorso alla decontribuzione degli oneri sociali per conseguire obiettivi “altri” rispetto al sistema previdenziale, mi sembra che questa proposta sia espressione, ancora una volta, di un atteggiamento rinunciatario rispetto al ruolo delle relazioni industriali nel perseguire obiettivi di miglioramento delle condizioni di lavoro, dai salari agli orari.
Eppure, dalla “storia” riportata nella stessa premessa alla proposta di legge emerge con chiarezza che i progressi, così come le battute di arresto, nel conseguimento di quegli obiettivi sia sempre stato legato alla vitalità delle relazioni industriali, piuttosto che all’evoluzione normativa.
(da isril.it )

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