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La carenza di tecnici
e la fabbrica dell’ignoranza

La carenza di tecnici <BR> e la fabbrica dell’ignoranza

Valerio Ricciardelli

La mancanza di tecnici, anche specializzati, che interessano un po’ tutti i settori economici e dei servizi, per l’economia industriale ha raggiunto ormai da tempo livelli di allarme. La stima fatta da Unioncamere si aggirava qualche mese fa sulle 100.000 unità all’anno, addirittura proiettata sui prossimi 5 anni e probabilmente calcolata sulla base dei futuri e prevedibili pensionamenti. Il dato andrebbe però disaggregato con molta attenzione, ben oltre le sottodimensioni analizzate finora.
A fini scolastici, per le prime informazioni che servirebbero alla definizione delle politiche dell’istruzione e della formazione, occorrerebbe categorizzare questa mancanza di professioni per possesso di titolo di studi. Occorre infatti sapere quante sono le professioni mancanti che derivano da una qualifica professionale, quante da un diploma professionale o di istruzione tecnica, quante da un diploma di istruzione terziaria e, non sarebbe male se fosse possibile (cosa importantissima) fare il collegamento con gli indirizzi attuali del nostro ordinamento scolastico e anche con quelli delle riforme che finora sono state attivate. Ciò consentirebbe anche di far uscire allo scoperto tutta l’offerta di lavoro operaio che si cerca di soddisfare con dei giovani diplomati, penalizzando anche i livelli salariali.
Dal lato della scuola, quindi dell’offerta dei tecnici mancanti, occorrerebbe clusterizzate di conseguenza la quantità di qualifiche e di diplomi annuali per indirizzo, a cui sarebbe però necessario affiancare l’esito delle votazioni scolastiche della qualifica e del diploma d’uscita, assieme alle votazioni delle materie professionali degli ultimi due anni. Ne uscirebbero non poche sorprese, che dovrebbero essere il punto di partenza di qualsiasi riforma scolastica.
Ai fini del mercato del lavoro, per la mancanza di tecnici segnalata, sarebbe invece necessario conoscere almeno tre cose: le tipologie contrattuali offerte per dividere il precariato dai contratti stabili e comprendere la coerenza tra posizione cercata e il titolo di studio, le politiche salariali applicate e le loro dinamiche con la crescita degli ultimi 10 anni e la presenza o meno in azienda di una politica rivolta allo sviluppo della risorsa umana. Con un quadro informativo del genere si potrebbe iniziare a prendere in seria considerazione come fare una politica per una buona riforma scolastica.
Bisogna però prendere coscienza di alcuni vincoli di sistema, assolutamente pregiudizievoli alla buona riuscita.
La mancanza di tecnici ha due dimensioni: una quantitativa, perché mancano fisicamente le persone, un po’ per il calo demografico e un po’ perché gli istituti tecnici e professionali non sono una scelta scolastica attrattiva per gli studenti e le loro famiglie. La seconda dimensione è invece qualitativa e si divide in due altre sottodimensioni. La prima riguarda la “non conoscenza dei saperi” che poi devono comporre le competenze necessarie alle imprese. Questo deficit origina dall’inadeguatezza e obsolescenza dei curricula scolastici attuali; quindi, è l’esito della mancanza di una coerente offerta formativa rispetto alle esigenze del Paese. Ma c’è poi la seconda sottodimensione qualitativa che è ben più allarmante e che riguarda addirittura la grave mancanza delle conoscenze di base, come indica il Censis, che rende i cittadini più disorientati e vulnerabili. Ora passi per l’inadeguatezza e obsolescenza dei curricula scolastici, a cui si può provvedere con soluzioni non complesse e anche facili da attivare, ma per quanto riguarda le conoscenze di base il quadro del Censis è drammatico.
Il rapporto indica che non raggiungono i traguardi di apprendimento: in italiano il 24,5% degli alunni al termine del ciclo di scuola primaria, il 39,9% al terzo anno della scuola media, il 43,5% all’ultimo anno della scuola superiore; mentre in matematica, il 31,8% alle primarie, il 44% alle medie inferiori e il 47,5% alle superiori. Non raggiungere questi traguardi di apprendimento significa, in temini molto concreti, non saper leggere, intesa la comprensione, non saper scrivere, intesa la comunicazione e non saper far di conto, intesa anche la capacità di applicare la logica. Tra l’altro queste défaillance sono tutti elementi che coincidono con i dati dell’analfabetismo funzionale -che ha percentuali elevate – del nostro Paese.
Ma c’è di più e drammaticamente preoccupante. Il Censis ci indica che i dati espressi salgono vertiginosamente oltre l’80% all’ultimo anno degli istituti professionali; che significa che 8 allievi su 10 non raggiungono gli apprendimenti minimi in italiano e in matematica e nonostante questa débâcle vengono comunque promossi e diplomati, perché il tasso di promozione è quasi prossimo al 100%.
Aggiungo però un’altra considerazione. È evidente che, se più dell’80% degli studenti dell’ultimo anno dell’istruzione professionale non raggiungono gli apprendimenti minimi in italiano e in matematica, con certezza non saranno raggiunti gli apprendimenti minimi anche nelle altre materie e soprattutto quelle professionali; però, a fine ciclo vengono tutti licenziati o diplomati con un documento pubblico ufficiale. In questa situazione, l’adeguatezza e la rimozione dell’obsolescenza dei curricula scolastici avrebbe poco effetto. Sarebbe un tentativo inutile di piantare nuove colture in un terreno inadatto. Tutto fa supporre che l’offerta di diplomati provenienti dagli istituti professionali e dagli istituti tecnici, che è disponibile per il mercato del lavoro e quindi per soddisfare le richieste delle imprese, ha una percentuale altissima di persone che non hanno raggiunto i traguardi di apprendimento minimi previsti nel loro percorso di studio e non solo in italiano e matematica, ma anche nelle materie professionali.
Dobbiamo dunque tirare almeno tre conclusioni. La prima: la “fabbrica” che dovrebbe occuparsi della costruzione del futuro del Paese, che si deve basare sull’economia industriale più innovativa, è nei fatti come scrive il Censis una “fabbrica di ignoranti”. La seconda considerazione è che costoro, intendendo gli studenti non performanti, vengono diplomati con riconoscimento del valore legale del diploma che dovrebbe garantire il raggiungimento dei traguardi di apprendimento previsti, con tutto quello che ne consegue, attraverso una attestazione pubblica falsa. Verrebbe anche da chiedersi quale è la differenza tra i diplomifici falsi con cui sta combattendo il Ministero e i diplomi concessi dall’istituzione scolastica a tutta quella popolazione studentesca che non raggiunge i traguardi di apprendimento minimi.
La terza considerazione, osservati i dati del terzo anno della scuola media pubblicati dal Censis, ci fa dedurre che la produzione di ignoranza è programmata per almeno i prossimi 5 anni.
Non c’è però da stupirsi e nemmeno era necessario che il Censis ci riportasse all’analisi delle performance del nostro sistema scolastico. Basterebbe ricordare l’esito del concorso per magistrati che era stato attivato dal Ministero della Giustizia due anni fa. In quell’occasione su ben 3800 candidati, il 95% fu sonoramente bocciato per gravissimi errori, anche nelle conoscenze di base, tali da imbarazzare gli stessi commissari di esami. Come misura correttiva immediata sarebbe stato opportuno individuare gli istituti superiori che avevano diplomato questi candidati e le università che gli avevano poi laureati per raccomandare o, meglio ancora, imporre una più seria valutazione scolastica. Ma così non è stato.
Con questa disponibilità di conoscenze insufficienti il Paese dovrebbe affrontare le complesse sfide che conosciamo e che richiedono come conditio sine qua non il possesso di un elevato livello di competenze, in molteplici campi, che dovrebbero essere prodotte in un sistema scolastico altamente performante.
Il Paese però è silente e distratto da altro, e non si possono nemmeno addebitare tutte le responsabilità al Ministero dell’istruzione che fa quello che può.
Di fronte ai dati del Censis, la politica avrebbe dovuto immediatamente sobbalzare sulla sedia e approfondirli con una meticolosa e approfondita anamnesi, per trovare subito qualche terapia urgente. Le Commissioni parlamentari dell’istruzione dovrebbero essere in seduta permanente. È evidente che per uscirne da questa emergenza bisogna attivare degli interventi terapeutici immediati. Non c’è tempo per aspettare le riforme. Bisogna allungare l’apertura delle scuole, anche nel periodo estivo, creare immediatamente in sovrapposizione ai percorsi ordinari altri percorsi di rafforzamento. In questo momento bisogna solo studiare di più e basta e la scuola deve attivare tutte quelle iniziative necessarie per studiare di più. Serve un piano straordinario esclusivamente dedicato per far fronte a questa emergenza. Ma tutta la società ne deve essere coinvolta e le stesse famiglie devono essere i primi attori di una rivoluzione copernicana, tornando a mettere al primo posto del loro ruolo educativo la scuola. Altrimenti non se ne esce.

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