Anno critico il 2024: ne tratta il 58° Rapporto del Censis, che riesce ogni volta ad offrire appropriate chiavi di lettura e di interpretazione sullo stato della società italiana. L’appuntamento annuale con l’Istituto di piazza di Novella a Roma, fondato dal Prof. Giuseppe De Rita, è sempre convincente nella sua disamina dettagliata e nell’uso di metafore descrittive che esplicitano stilemi comunicativi originali e sorprendenti, perché l’analisi conosce ma la sintesi crea: ne hanno parlato Giorgio De Rita e Massimiliano Valerii nel corso della presentazione.
Fragilità, come evidenza palpabile pur in un contesto in cui si ricomincia a parlare di crescita (esplode il turismo con 447 milioni di visite nel 2023): questo è l’incipit del rapporto, considerato il quadro delle incertezze internazionali ma anche le discontinuità presenti nella società italiana, perché siamo bravi nelle crisi ma meno nelle ripartenze. Lo stesso concetto di ‘fine’, un tempo usato a rappresentare lo scopo di una progettualità poi rivelatasi effimera viene adesso ribaltato perché ricorrente nell’immaginario collettivo piuttosto per descrivere un arresto, la stasi di un Paese in attesa, in cui il ceto medio si sta sfibrando e sgretolando per la contrazione del potere d’acquisto, diminuito del 7% così come risulta erosa la ricchezza pro-capite del 5% rispetto a 20 anni fa, oltre ad una politica salariale incerta e ferma al palo. Tutti sembrano convinti che è molto difficile risalire nella crescita. In un contesto in cui non si sale e non si scende allo stesso modo, si deteriorano le speranze collettive e una nuova sindrome italiana prende forma: quella della continuità nella “medietà”, perché tutti si trovano ad annaspare in una linea di galleggiamento, avviluppati dalla stessa ‘marea’, attenti a non andare sotto per non affogare ma privi di motivazioni e di spinte a risalire e uscire dal guado.
Ci rialziamo ogni volta senza ammutinamenti, la spinta propulsiva si è fermata. In realtà questa deriva sembra essere condivisa oltre i confini nazionali: perché se è vero che tutto quello che conta accade fuori dall’Italia (guerre, conflitti etnico-religiosi, elezioni americane ecc.) nessuno è contento di come va il mondo…non l’Europa, non la Russia, non la Cina, non i Paesi arabi, non il sud del mondo, non l’Africa.
Viviamo dunque la stagione dello scontento planetario: dopo le illusioni della globalizzazione come volano del cambiamento, prendiamo ora atto con rassegnazione della criticità dei processi storici tra distruzioni, desolazione, marginalizzazione delle speranze di fronte ad una realtà autopropulsiva sempre esterna a noi a cui non si riesce a tener testa.
Ma un’altra evidenza prende corpo: quella che accende e porta ad infiammare la guerra delle identità. Si comincia ad ingaggiare una guerra sociale per valorizzare le singole identità individuali, innescando una logica amico-nemico. In assenza di un progetto sociale condiviso cresce la frammentazione e si alimenta una sorta di distacco dai miti della partecipazione e della crescita identitaria, della nazione e dei soggetti che ne fanno parte. Si tratta della sequela del disincanto, del senso di impotenza e del pessimismo ma non sfocia in esplosioni, quanto invece resta latente in quella linea di galleggiamento che sembra essere la chiave interpretativa più convincente di questo 58° Rapporto.
Siamo dunque in presenza di una crisi della partecipazione, dell’europeismo e dell’atlantismo. La crescita dell’astensionismo elettorale esprime un distacco tra cittadini e istituzioni, siamo arrivati al 51% alle recenti votazioni regionali in Umbria ed Emilia Romagna. Anche la fascinazione per le democrazie illiberali è un volto nuovo dell’italiano medio fotografato nel 2024: solo il 31 % è d’accordo sulle spese militari al 2% del PIL come richiesto dalla Nato mentre il 66% attribuisce le colpe della guerra in Ucraina agli Usa e all’Occidente, l’antisemitismo va oltre la difesa delle ragioni del popolo palestinese ed evoca foschi presagi e desolanti ricordi. Il vessillo dell’anti-occidentalismo sventola oggi nella maggior parte delle case italiane: per come si possa leggere esso è una miscela di relativismo, nichilismo, negazionismo, deprivazione della consapevolezza che nasce dalla distorsione della realtà e dalla superficiale lettura delle evidenze, condizionata da una sottile e sottesa politica della disinformazione tesa a creare le premesse per un nuovo ordine mondiale. “L’Europa può morire” (Macron alla Sorbona) e l’Italia ne fa parte: è la sintesi efficace di uno scoramento condiviso che descrive una sorta di impotenza di fronte ai fenomeni globali.
“La nostra società è molto più meticcia di quanto si dica, avvezza a mescolare valori e significati, persone e comportamenti. Un po’ occidentale e un po’ mediterranea, levantina e mediorientale, contadina e cibernetica, poliglotta e dialettale, mondana e plebea”. Iconografia pittoresca e tutto sommato indulgente di una collettività inconsapevole ed effimera, tra relativismo etico e indifferenza verso i cambiamenti intorno a noi di cui senza troppa cognizione facciamo parte: così il Rapporto descrive quella sorta di mutazione morfologica della Nazione, oltre che antropologica: l’Italia si colloca in UE al primo posto per le cittadinanze concesse: il 21, 6 % di tutte le acquisizioni nell’intera Europa. Nell’ultimo decennio si conta il 112% delle cittadinanze concesse.
Ma siamo culturalmente preparati a questo salto d’epoca? Contiamo 8, 4 milioni di laureati ma c’è mancanza di conoscenze di base. Il sistema scolastico pur in un quadro di millantate innovazioni – specie in direzione della digitalizzazione pervasiva- segna il passo: il 43, 5% dei ragazzi all’uscita dalle secondarie (l’80% negli istituti professionali) non raggiunge gli obiettivi formativi.
La nostra società è attraversata da una ignoranza diffusa: il 30% non sa chi era Mazzini (“un politico della prima repubblica?), per il 6% Dante non viene conosciuto come autore della Divina Commedia, la Cappella Sistina era stata affrescata da Giotto o da Leonardo, nessuno ricorda la data della Rivoluzione francese. Intanto riaffiorano i pregiudizi come espressione di una distanza esistenziale di diverse identità: immigrazione, famiglia, religione, etnie, colore della pelle, orientamento sessuale: sono questi i nuovi nemici, ignorando le evidenze che crescono intorno a noi. Il Rapporto ci ricorda che nel 2070 (ma credo anche prima) la Nigeria conterà una popolazione superiore a quella dell’intera Europa, fino a diventare la 5° economia del mondo mentre non sarà annoverato nessun Paese europeo tra le prime potenze del pianeta. Sembra che le opinioni in circolazione siano supportante più da intuizioni approssimative che da ragionamenti basati su conoscenze certe, anche se l’immaginario collettivo ha una sua morfologia riconoscibile: per il 49,6% degli italiani il nostro futuro sarà condizionato dal cambiamento climatico e dai ricorrenti eventi atmosferici catastrofici, per il 46,0% dalla piega che prenderà la guerra in Medio Oriente, per il 45,7% dal rischio di crisi economiche e finanziarie globali, per il 45,2% dalle conseguenze dell’aggressione russa all’Ucraina, per il 35,7% dalle migrazioni internazionali, per il 31,0% dalla guerra commerciale e dalle tensioni geopolitiche tra Stati Uniti e Cina, per il 26,1% dagli stravolgimenti prodotti dalle innovazioni tecnologiche.
Il “sentire” del Paese appare sempre più come un “sentito dire” ma il Rapporto chiude – com’è consuetudine- con una indicazione che alimenta la fiammella della speranza: se il tipico modello italiano del galleggiamento non funziona e non riusciamo a immaginare il futuro, ciò significa che in una società chiusa non si cresce. Bisogna aprirsi al nuovo, è questa la sfida. Restare chiusi e non crescere non ce lo possiamo più permettere, la società italiana deve fare un passo avanti. Il problema è che c’è molta incertezza e confusione sulla via da intraprendere.
(da mentepolitica.it)
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