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Il film su Berlinguer
e la nostalgia della politica

Il film su Berlinguer <br> e la nostalgia della politica

di Benedetta Lazzeri

Qualche tempo fa, in una fredda ma gremita aula dell’Università degli studi di Milano – forse la più bella sede universitaria d’Italia - ho avuto il piacere di ascoltare Andrea Segre parlare del suo ultimo film da regista: “Berlinguer. La grande ambizione”. Ero andata a vedere il film a pochi giorni dall’uscita, mi interessava molto capire come la cinepresa potesse accostarsi con fare non-documentaristico al personaggio, ero curiosa di come uno degli attori più bravi e mimetici del nostro tempo – Elio Germano – avesse interpretato il proprio ruolo, ma soprattutto volevo rivedere, rileggere, riascoltare la vita, le idee e la forza politica di Enrico Berlinguer.
Al di là della simpatia politica e personale nei confronti di quella che è stata senza dubbio una delle figure principali della storia del PCI, quando mi sono seduta nella sala disadorna ma accogliente di un piccolo cinema della mia città, avevo nostalgia della politica.
Tempo fa, proprio su questa testata, avevo dedicato qualche riflessione a questa mia malinconia politica, avevo associato la perdita di spazio di un agire propriamente politico al continuo assottigliarsi del senso della nostra esistenza in quanto tale, in quanto esistenza finita - e ad un Fine orientata - all’interno di una comunità. Sarebbe divertente rivelare ora un cambio di rotta, sarebbe certamente sorprendente per la mia famiglia scoprire in queste righe un’entusiastica adesione al Neoliberismo, magari anche con una dichiarazione d’amore al Capitalismo – che mai ho associato ad una potenza demoniaca e distruttrice, ma al quale, in effetti, non ho mai voluto arrendermi senza lottare almeno un poco -; sarebbe audace e originale, forse riuscirei persino a lanciare un tema nuovo per i pranzi della domenica, ma mi tocca deludere tutti.
In effetti, non solo il film, ma soprattutto il dialogo degli studenti milanesi con Andrea Segre ha risvegliato in me questa nostalgia letteraria per una politica che, di fatto, io e la mia generazione (per non parlare di quelle successive) non abbiamo mai vissuto.
Ho parlato di ‘dialogo’ e già questo è un punto cui prestare attenzione: quello attorno al film è stato uno scambio, nessuna lezione frontale, nessun comizio, nessuna propaganda o autopromozione. Ho ascoltato con attenzione le questioni sollevate e le risposte del regista, ma – devo confessarlo – un tema su tutti ha catturato il mio interesse: la collettività. Ne avevo sentito parlare tra i banchi di scuola, in un liceo classico di provincia che ancora oggi ringrazio di avermi aperto orizzonti tanto ampi da far invidia ad una passeggiata a Time Square a Natale; me ne parlava a casa mio nonno, della collettività, di quell’unione di liberi ed eguali per la quale aveva combattuto – stremato dalla stanchezza e dalla paura – la guerra partigiana. L’avevo sentita declamare all’università, risuonava nelle pagine di Platone, di Rousseau, di Hobbes, di Hegel; poi avevo continuato a cercarla, nel buio di un cinema, nel segreto di un libro, ma erano anni che non ne sentivo risuonare la forza linguistica e politica in un’aula gremita di gente. E non ci speravo nemmeno quel pomeriggio, non la stavo aspettando, ma è arrivata.
È saltata fuori prepotentemente, come tutti i concetti che mantengono la loro pregnanza anche quando sembrano coperti di polvere, è schizzata dal cilindro come un coniglio, con la stessa magica irruenza.
Nel rispondere a una domanda sul lavoro storico-archivistico che aveva preceduto la stesura della sceneggiatura, il regista deve averla sentita scalciare dal fondo del cappello. Nella trascrizione dei discorsi, negli appunti presi prima dei comizi, negli epistolari privati o di Partito – ha spiegato Segre – Berlinguer era stato in grado di condensare, riassumere e sistematizzare la collettività intera. È stata questa – ha continuato il regista – la scoperta più affascinante della lunga ricerca che li ha impegnati per mesi: Enrico Berlinguer aveva la straordinaria capacità di interpretare, tagliare e ricucire qualcosa che egli stesso sapeva trascenderlo infinitamente. Nessuna leaderistica presa di posizione, nessun podio da numero uno, la rock star sul palco era la collettività, quell’unione scelta che voleva rappresentare il tutto e l’enorme ambizione di ordinarlo. Dalle prime alle ultime fila del Partito, la collettività si raccoglieva attorno ai palchi, nelle piazze, attorno ai fuochi delle feste dell’Unità. La sua voce risuonava negli articoli di giornale, veniva amplificata dai microfoni, perdeva o vinceva le elezioni.
Queste parole (forse l’intero pezzo) potrebbero essere scambiate per un grido di parte, per un’adesione ad istanze politiche o ideologiche o – ed è ancora peggio – per un’agiografia, per la celebrazione della vita del santissimo Berlinguer e del suo santo accolito Andrea Segre. Ma non è così.
Perché la collettività trascende le simpatie e le ideologie; risuona, nel film, nei discorsi di Aldo Moro, nella paura della Democrazia Cristiana di non poter più interpretare – con l’eventualità del compromesso – le istanze di un popolo sovrano, protagonista indiscusso delle banchine politiche e delle riunioni di partiti dai colori più vari, dal rosso al nero, potremmo dire scomodando Stendhal.
Non c’è pars, non c’è particolarità organizzata che ha la forza di reggere di fronte all’unità della comunità ed è proprio nello sfaldamento di essa che si è inserito, imperante, il sentimento dell’isolamento politico e sociale che racchiude ciascuno di noi nella solipsistica ricerca di una felicità singola, nell’angosciante sentimento di vuoto di fronte a urne disadorne, a comizi politici fragorosamente vuoti, a parole sole strillate da palchi sui quali c’è spazio solo per una persona: il leader di turno, bianco, rosso o nero che sia. Prendetele, allora, così queste poche righe: come la malinconica nostalgia per le grandi ambizioni e per le grandi speranze.

 

 

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