E’ difficile fare un ritratto di chi ha mille volti, ma un buon viatico soccorre l’internauta che voglia accostarsi alla figura di una delle poetesse italiane più note: “Ci presentiamo…siamo Emanuela, Barbara, Flavia e Simona, le quattro figlie della poetessa recentemente scomparsa Alda Merini. Vogliamo raccontavi la sua storia, non la storia della famosa poetessa che tutti voi già conoscerete ma la storia di una madre, una madre un po’ particolare…”. Sono parole tratte dal sito dedicatole - aldamerini.it - ottimo strumento se si vuole andare oltre alla Merini della pazzia, del manicomio, degli amori, dell’ape furibonda, dei navigli, o dei versi maggiormente recitati: “Sono nata il ventuno a primavera/ma non sapevo che nascere folle,/aprire le zolle/potesse scatenar tempesta./Così Proserpina lieve /vede piovere sulle erbe/sui grossi frumenti gentili/e piange sempre la sera./Forse è la sua preghiera”. La sua preghiera in rima era sempre circonfusa d’amore, era una preghiera di carne, non d’incenso, come nel caso della sua relazione con un altro grande scrittore: Giorgio Manganelli. Per oltre cinquant'anni, le poesie evocative della relazione con la Merini, scritte dall'autore dell’ Hilarotragoedia, sono rimaste inedite, poi c’ha pensato Crocetti fortunatamente a stamparle. Giorgio incontra Alda nel 1947. E’un amore di tormenti e strazi, soprattutto per quegli anni: lui, 27 anni, è già sposato, lei invece ha appena sedicenne, e si incontrano grazie al critico letterario Giacinto Spagnoletti, frequentato da entrambi. Amore e tormento del resto sono una parola sola, in questi casi. Nello stesso anno, il 1947, la Merini sperimenta «le prime ombre della sua mente». Viene internata per un mese. Quando ne uscirà, ad aspettarla Giorgio Manganelli: vivranno un lustro d’ amore intenso e assai contrastato. Finisce traumaticamente. Ecco perché per Manganelli, la figura femminile è «simile al tetano/che inchioda le mascelle». In una intervista tv, molti anni dopo, la poetessa racconta la sua versione sulla storia col letterato: “Io credo che per Manganelli sono stata il suo demone, il suo demone ispiratore”. Merini non cede ad alcun sentimentalismo, parla di un Manganelli timorato, che non ti sfiorava se prima non s’era fatto dieci sedute di psicanalisi. Ne sottolinea il grande calibro intellettuale, ma “per lui ero un dramma, ero una mina vagante”. Si definisce Alda, un “uomo di carattere”, e quando il l’intellettuale si è trovato davanti “una donna di carattere, si è spaventato, perché era lui la donna”. Spietata l’ape dispettosa – ha pubblicato anche un romanzo, La Scopata di Manganelli - lascia al mondo buoni frutti non solo lirici: “Nonostante le parole della nostra amatissima madre siamo onorate di ringraziare le migliaia di persone che si sono recate a porgere il loro saluto alla piccola ape furibonda che, con la sua vita difficile e la sua opera sofferta, ha segnato la storia culturale non solo di Milano. E a tutti quelli che, con noi, hanno pianto la morte di nostra madre vogliamo ricordare che lei la sua vita l’ha goduta, l’ha goduta tutta”. Lo diceva lei stessa, del resto: “Io la vita l’ho goduta tutta, a dispetto di quello che vanno dicendo sul manicomio. Io la vita l’ho goduta perché mi piace anche l’inferno della vita e la vita è spesso un inferno…. per me la vita è stata bella perché l’ho pagata cara”. Stessa sentenza interiore Manganelli avrebbe avuto molto probabilmente su di lei.
(© 9Colonne - citare la fonte)