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IL TESSILE MADE IN ITALY
TRA CRISI E TRANSIZIONE

 IL TESSILE MADE IN ITALY <br> TRA CRISI E TRANSIZIONE

Il settore della moda Made in Italy – che comprende tessile, abbigliamento, pelletteria, occhialeria, gioielli e beauty – ha chiuso l’anno con un fatturato stimato poco sotto i 96 miliardi di euro. Un numero ancora importante, ma in calo del 5,3% rispetto al 2023, secondo i dati della Camera Nazionale della Moda Italiana. Il comparto più in sofferenza è quello della pelle, pelletteria e calzature, con una flessione prevista dell’8,1%, come segnala Confindustria Accessori Moda. Dietro questi numeri si muove una trasformazione profonda, accelerata da fattori congiunturali – come l’instabilità geopolitica e la contrazione dei consumi – ma anche da un cambiamento strutturale, culturale e normativo: la transizione ecologica e sociale della moda. Proprio in settimana la Camera dei Deputati ha così approvato una mozione, firmata dal deputato di Fratelli d’Italia Fabio Petrella, che impegna il governo a sostenere le micro, piccole e medie imprese italiane, che formano la filiera del tessile, un impegno del resto già avviato con il Piano Moda Italia lanciato dal Ministero per le Imprese e il Made in Italy. "La mozione nasce in un periodo in cui il settore moda si trova a capire che probabilmente la crisi sta diventando strutturale – spiega Pietrella - Abbiamo chiesto cose molto semplici, al di là del rilancio degli gli investimenti per l'internazionalizzazione, per l'ottimizzazione delle strutturazione dei distretti; 100 milioni di euro sui contratti di sviluppo, 100 milioni sui mini contratti di sviluppo”. Anche perché per il 2025 non è previsto alcun rimbalzo: “Ce lo aspettiamo all'inizio dei 2026 e quindi intanto cerchiamo di metterci al riparo".

Un’industria insostenibile. Se da un lato il Made in Italy resta sinonimo di qualità, saper fare e riconoscibilità internazionale, dall’altro è chiamato a confrontarsi con una nuova domanda di senso, proveniente da istituzioni, consumatori e – sempre più – anche dagli stessi imprenditori del settore. Una domanda riassunta in una parola: sostenibilità. L’industria della moda, a livello globale, è tra le più impattanti in assoluto: è responsabile del 10% delle emissioni globali di CO₂; consuma circa 215 trilioni di litri d’acqua all’anno; è tra le prime industrie per produzione di microplastiche e inquinamento chimico. In Europa, ogni cittadino consuma in media 26 kg di vestiti l’anno, ne butta via 11, e solo l’1% dei capi viene riciclato in modo circolare. Un’enormità di materiali, risorse e lavoro che finiscono in discarica o negli inceneritori, spesso dopo pochi utilizzi. La Commissione europea ha inserito il tessile tra le filiere prioritarie del Green Deal e della nuova Strategia per i prodotti sostenibili. Dal 2025, la raccolta differenziata dei rifiuti tessili sarà obbligatoria in tutta l’UE – in Italia lo è già dal 2022 – e arriveranno normative sempre più stringenti su etichettatura ambientale, durabilità dei prodotti, tracciabilità delle filiere, passaporto digitale e divieto di distruzione degli invenduti. Normative destinate però a fare bene o male al settore? “Noi vogliamo vedere la sostenibilità come un asset strategico del nostro Paese, l'italia è da sempre sostenibile, lo sono i nostri distretti, i nostri territori” premette Pietrella, “ma se non si capisce che il prodotto italiano non è soltanto la maglia, il pantalone ma il territorio che lo produce, il sorriso della gente, la comunità…”. Insomma, “noi ripudiamo questo green deal anche nella moda che tanti danni ha fatto, dobbiamo far capire che la transizione ecologica deve mettere al centro il mercato. E nel momento nel quale un investimento viene richiesto a una micro-impresa non ha un riscontro oggettivo nelle vendite bisogna dire la verità: in questo momento il mercato non è pronto a pagare un maggior prezzo per un prodotto sostenibile”. La direzione è quella, insomma, eppure le spinte contrastanti sono tante, e oltre a quella dei maggiori costi di produzione ci sono anche fattori di concorrenza esterna spesso “sleale”: “Noi non mettiamo delle barriere a quei prodotti che vengono da paesi che contraddicono completamente qualsiasi sistema ecologico e competono nel prezzo buttando fuori dal mercato i nostri prodotti, abbiamo un problema”.

Il consumautore. Se il mercato oggi non è pronto, quanto manca? Secondo Roberta Redaelli, autrice del volume “Italy & Moda. Creatività, bellezza, sostenibilità” (Koiné Edizioni) che raccoglie 17 case history e altrettante testimonianze dal mondo della moda italiana “la sostenibilità non può essere un ornamento, ma il cuore pulsante delle nostre scelte quotidiane”. E il soggetto chiamato a fare la differenza non è solo l’impresa, ma il consumatore consapevole, quello che l’autrice definisce “consum-autore”. “Il mercato ci offre ciò che chiediamo” – scrive Redaelli – e dunque è nella domanda, più che nell’offerta, che si gioca la possibilità di un vero cambio di paradigma. Una domanda che però va informata, educata e guidata verso una scelta più etica rispetto ad esempio a quella facile e solo in apparenza conveniente del fast fashion. Con trasparenza, soprattutto. Uno dei problemi più concreti riguarda l’etichettatura dei capi. Oggi, le informazioni riportate sulle etichette tessili sono spesso parziali, opache, insufficienti. Si parla di composizione, talvolta di paese d’origine, ma raramente si conoscono i quattro passaggi fondamentali che compongono una filiera tessile: filatura, tessitura, confezione, finissaggio: quando si acquista una t-shirt da 5 euro è molto improbabile che anche solo due di questi passaggi siano avvenuti in Italia. Il rischio, evidenzia il libro, è che marchi nazionali o europei importino prodotti realizzati altrove, in Paesi dove i criteri di sostenibilità ambientale e sociale sono spesso assenti, e li rivendano con etichette rassicuranti, senza una vera trasparenza di filiera.

Perché la moda sostenibile costa di più (e perché conviene). Uno dei grandi freni alla diffusione della moda etica è il prezzo, proprio come sottolineava Pietrella. E allora è qui che si gioca una delle battaglie narrative più importanti: spiegare perché costa di più, e perché non è un prezzo “alto”, ma giusto. Come vonfermano numerosi studi indipendenti, la moda sostenibile investe in materie prime naturali (cotone organico, lana, lino) coltivate senza pesticidi, più costose ma più sane per l’ambiente e per la pelle; processi di produzione artigianali o a basso impatto; filiera corta, spesso locale; ricerca e sviluppo per materiali innovativi bio-based; tracciabilità tramite tecnologie come blockchain; e soprattutto salari dignitosi, secondo il principio del living wage, il salario sufficiente per vivere dignitosamente nel proprio Paese, che non coincide con il salario minimo, perché include l’accesso all’alloggio, ai trasporti, alla sanità e alla sicurezza sociale. Si tratta di una variabile chiave che incide sul prezzo finale, ma garantisce diritti fondamentali a chi produce ciò che indossiamo. Infine, c’è il concetto di “cost per wear”: un capo etico dura di più, mantiene la forma e il colore, vien usato con maggiore frequenza e affetto. A conti fatti, risparmia risorse, sprechi e denaro. In un’epoca in cui l’“usa e getta” ha falsato la nostra percezione del valore, educare a questo tipo di ragionamento è fondamentale.

La sostenibilità è anche culturale (e comunicativa). Non basta produrre meglio. Bisogna raccontarlo meglio. La moda è uno dei settori in cui la comunicazione ha più potere. Ma troppo spesso la comunicazione – anche quella pubblicitaria, editoriale, influencer – è ancora ferma alla frivolezza del trend stagionale. Occorre un cambio di tono, di linguaggio, di priorità: come scriveva Papa Francesco nell’enciclica Laudato Si’, “non c’è ecologia senza un’adeguata antropologia”. La sostenibilità non può prescindere dalla giustizia, dal rispetto della dignità umana, dalla trasparenza dei processi. La moda può e deve diventare strumento di educazione, di rispetto, di empatia verso le persone e i territori. Oggi il Made in Italy ha un’occasione unica: trasformare la crisi in svolta. Non solo riconquistare mercati, ma ridare senso alla parola eccellenza. Non bastano più la bellezza, lo stile, la firma. Servono valori. Serve credibilità. Serve un nuovo patto tra industria, consumatori e territorio.

(© 9Colonne - citare la fonte)