Il suo cognome sembra quello che esultano i campioni quando vanno a segno: Camon. Ma lo scrittore de “Il quinto stato”, che uscì in Italia con un’entusiastica prefazione di Pier Paolo Pasolini, e tradotto in Francia per iniziativa di Jean-Paul Sartre, non esulta quasi mai, a cominciare dal suo sito, essenziale, vagamente DOS, che sembra appena una delle tante possibilità di un menu a tendina. Ci sono solo parole. Avvertimenti, massime, articoli. Camon è uno scrittore, punto: “Scrittore. Colui che, se gli ammazzano il figlio, corre subito dalla polizia, non è uno scrittore. Lo scrittore si ferma un attimo prima di partire, e abbozza due righe”. Scrittore è Camon, uno che sta sulla scena letteraria da decenni, tradotto in molti paesi, Premio Strega nel 1978 con lo straziante coraggioso e necessario “Un altare per la madre”, eppure non lo vedi mai in tv, probabilmente perché non ci va, le redazioni lo sanno, e lo lasciano in pace. Pasolini c’andava per esempio, ci andava persino Ungaretti, ci andava a volte Calvino. Camon no, lo vedi tuttalpiù apparire una mattina sulla prima de “La Stampa”, in genere per raccogliere il seme morale d’un fatto di cronaca. “Chi vive, vive la propria vita. Chi legge, vive anche le vite altrui. Ma poiché una vita esiste in relazione con le altre vite, chi non legge non entra in questa relazione, e dunque non vive nemmeno la propria vita, la perde”. Questo è Ferdinando Camon, uno scrittore che ha prodotto romanzi a cicli: i primi tre confluirono nel "ciclo degli ultimi", da che l’autore si accorse di aver descritto la fine di una civiltà, quella contadina. Seguiranno altri cicli, come quello del terrore (nel senso di terrorismo) e quello della famiglia (tra cui “La malattia chiamata uomo”, in cui narra del suo rapporto con la psicanalisi). Chi volesse un distillato superbo del suo pensiero e dello stile con cui te lo ficca in testa, può dedicarsi a “Tenebre su tenebre”, una raccolta di aforismi, riflessioni, alcune letteralmente fulminanti, come quella che abbiamo letto in apertura, sullo scrittore che abbozza due righe prima di correre dalle autorità. Sì, i temi sembrano lugubri, ma i tempi sono lugubri, la vita ostile: inutile negarlo. Per il resto: “Problema. Finché puoi impostarlo, non è un problema. Il problema è quello che non sai impostare”. Ecco come impostava a due giorni dal voto la questione elettorale: “È nato ed è cresciuto un partito che ha rifiutato le tv e si è servito delle piazze. Siamo nel Duemila, e questo partito si è comportato come nel dopoguerra. Il popolo, questo popolo malato di teledipendenza, ha gradito ed è corso in massa. Se la tv è il nuovo mezzo di comunicazione di massa (se non appari in tv, non esisti), la campagna elettorale gestita sulle piazze e in internet è una rivoluzione”. Qualche riga più giù, visto che conosce il popolo italiano meglio d’altri, precisa: “Oggi il potere dei clan è riservato alle segreterie (dei partiti tradizionali, ndr). Il nuovo partito nato in queste elezioni non s’è dato una struttura anti-clan cioè democratica, ma super-clan cioè monocratica. E questo non viene percepito come un difetto, ma come una forza. Perché risponde in maniera nuova a un bisogno antico del popolo: avere un capo che incarni un mito”. Il problema di quella malattia chiamata uomo, Camon l’ha impostato con tutto il suo lavoro. Poi s’è votato, e tutti sappiamo come è finita, cioè che non è finita. Però vale la pena trascrivere una interrogativa di quell’articolo dello scrittore lombardo: “…siamo un popolo maturo per la democrazia? Domenica-lunedì andiamo a votare con un sacco di problemi. Non è che martedì avremo gli stessi problemi, e magari qualcuno in più?”. (Valerio de Filippis)
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