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Massimo Troisi, il mito
tra lacrime e sorrisi

Massimo Troisi, il mito </br> tra lacrime e sorrisi

Nel giugno del 1997, la Federazione Italiana Psicologi, chiese a un buon numero di giovani, nella fascia 14-22 anni, quelli che oggi si vedono costretti nella spaventosa classificazione di “Neet” (dall’inglese not in education, employment, training; di fatto né studiano, né lavorano) quali fossero i loro miti. E tra Giovanni Falcone e Antonio Di Pietro – non era passato moltissimo dalla strage di Capaci e dalla discesa in campo del Cavaliere – spuntò Massimo Troisi. Il postino più famoso della storia del cinema italiano e non solo, oggi avrebbe 60 anni appena fatti, e sarebbe uno splendido uomo maturo, il cui portato comico si sarebbe sempre più impreziosito della tradizione teatrale, raggiungendo - ne siamo tutti certi in cuor nostro - il medesimo apice dell’amico Benigni, ci ha lasciato prestissimo, a 41 anni, l’età dei bamboccioni, secondo la massima mai dimenticata di Padoa Schioppa, tanto per rimanere in tema “gioventù bruciata”. E’ stato un lutto nazionale, uno choc vissuto con dolore da ogni spettatore, da ogni ammiratore, da ogni cittadino, e non ci resta che piangere. Tuttavia sorprende l’esito del sondaggio di cui sopra: Troisi, un attore comico, Troisi, un mito. E le ragioni sono tante e nessuna da sola spiega, ma è certo che l’italiano sa essere grato più che a un benefattore, a chi l’ha fatto sia ridere, sia piangere. E Massimo Troisi, il giovane Massimo Troisi, dotato di un talento mimico attoriale superlativo, capace di liberarti una risata che stava chiusa in un angolo nascosto della tua pancia, con appena un’onomatopea accompagnata da quella faccia lì, era sia l’uno, il comico, che l’altro, il drammatico. Pensi a lui che, ad un prete con maschera medievale, che gli ha appena detto: “ricordati che devi morire”, risponde, “va be’, mo’ me lo scrivo”, e ridi ancora, da solo, come uno scemo, attingendo a quella memoria collettiva di ilarità nazionale che è stata il suo cinema. Poi ti viene in mente il suo viso scavato, la sofferenza portata con grazia cristiana, con eterea abitudine, l’annuncio dato dai Tg, la parola “stroncato” che mulinava nelle orecchie e parlava del cuore, la cupa sfilata degli amici di sempre, da Scola, a Benigni, a Nanni Moretti che azzittì un cronista quasi togliendoselo dai piedi, facendosi largo col braccio, verso l’ultimo saluto a Massimo, ed allora l’attimo di allegria si tramuta in commozione. Ancora commozione, dal 1994 – anno della sua scomparsa – ad oggi; è un anno simbolico il 1994, una data post quem, post discesa in campo, post salita al cielo di Troisi. Sono passati vent’anni, ed ancora il magone non passa, specie perché c’è sempre meno da ridere, e più che in un salvatore della patria, riponiamo fiducia in un comico, un altro comico, ancora un comico, ed una ragione antropologica ci sarà. Che paese disgraziato. “Chello ch'è stato è stato... Basta, ricomincio da tre. /Da zero./Eh?/Da zero: ricomincio da zero./Nossignore, ricomincio da... cioè... Tre cose me so' riuscite dint'a vita, pecché aggi'a perdere pure chelle? Aggi'a ricomincià da zero? Da tre!”. (Valerio de Filippis)

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