Settecentoquarantaquattro pagine sul solo torneo di Wimbledon, le potevamo aspettare solo da due persone. Una non c’è più, ed in questi giorni arriva in Italia - come una magrissima consolazione - la biografia dell’autore di “Infinite Jest”, David Foster Wallace, che al tennis ha dato sudore e memorabili pagine (fu un discreto giocatore, un eccellente scrittore, al pari del suo idolo, Roger Federer, considerato in un saggio cult come una esperienza religiosa). L’altro è il nostro Gianni Clerici, lo scriba del rettangolo. Sono sue le sette centinaia di pagine che raccontano la competizione su erba più famosa del mondo (“Wimbledon - Sessant'anni di storia del più importante torneo del mondo”, Mondadori). Non sarà questo spazio a presumere di risolvere la questione su cosa leghi tennis e scrittura, tennis e narrazione (ci sono anche alcuni film, uno per tutti “Match Point” di Woody Allen), ma la cosa è evidente, basta leggere un qualsiasi resoconto di Clerici su “Repubblica” il giorno dopo d’un incontro (Italo Calvino lo definì: “uno scrittore in prestito allo sport”). E’ un serpente di parole, quasi un unico periodo, che parte spesso da un dettaglio, da un pettegolezzo laterale catturato nel bar del circuito, da un momento fuori scena del torneo, lì per lì estraneo al risultato, ma che poi svela la sua necessità nel racconto. Già l’amico Rino Tommasi, cui lo hanno legato telecronache mitiche, lo ha ribattezzato "Dottor Divago", per la sua nota tendenza alla divagazione, convinto che "non sempre nelle sue cronache troverete il risultato dell'incontro, ma troverete sempre la spiegazione della vittoria di un giocatore sul proprio avversario". Attacchi tipo: “Sono stato tre ore e cinquantatre minuti senza fare la pipì”, riferendosi alla finale del 1980, tra Borg e McEnroe, finita in un indimenticabile tie-break a favore dell’orso svedese, raccontano fisiologicamente la sua passione per il tennis. E il legame tra scrittura e sport. Per dire, il fondo erboso di Wimbledon, che ha sempre valorizzato il gioco di volo per la sua intrinseca velocità di rimbalzo, negli anni ha cominciato a rallentare, facendo coniare a Clerici l’espressione "erba battuta". L’erba rallenta, la terra si velocizza, cambiano le superfici, gli attrezzi, ma il tennis ha qualcosa di classico, di immutabile. Quel ragazzone coi capelli lunghi e la bandana, americano, per tutti ormai DFW, aveva sintetizzato la massima unità del gesto tennistico nel “momento Federer”. Anche Gianni se ne rese conto con due anni d’anticipo (il saggio di Wallace è del 2006, il passo ora citato del 2004): “Il Federer di oggi è praticamente ingiocabile. Per cominciare, il suo campo pare più stretto degli abituali otto metri e ventitré, perché il fenomeno posa i piedini negli immediati dintorni della linea di fondo, e si rifiuta recisamente quanto serenamente di indietreggiare. Lì piazzato, Roger ribatte tutto quanto l'avversario tenti di inviargli con gesti che, se non proprio mezze volate, son trequarti di volata. Un po' alla McEnroe, se permettete, ma ad una velocità quasi doppia. Il suo lavoro di avambraccio ricorda quello di Sugar Ray Robinson, quello di ginocchia il miglior Tomba su un paletto: non sono certo iperboli, ma pallide similitudini. Oltre alla sublime qualità del gesto, il Federer di oggi possiede, in massimo grado, le caratteristiche del killer, sportivo, beninteso”. In questa settimana vedremo sfilare i big nello slam francese del Roland Garros (terra), poi col caldo intenso di fine giugno e inizio luglio a Wimbledon (erba). Momenti Federer, momenti Clerici, e momenti Wallace, sono esperienze religiose per lo spettatore che del sacro ha perso l’aura, ritrovandola a bordo campo, in un gesto, in queste pagine.
(Valerio de Filippis)
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