Non sarà un segreto a questo punto: Matteo Renzi è il segretario numero cinque del Partito democratico. La cosa viene registrata come “rivoluzionaria” anche dai suoi detrattori, e molti di questi sono suoi compagni di partito. E’ impossibile non conoscerlo, è quanto di più mediatico esista in politica, dopo naturalmente quell’ectoplasma di Arcore, che s’aggira per il Paese con una cadrega senatoriale sotto al braccio. Matteo Renzi è bello. Vero, falso. La gente s’accapiglia anche per classificazioni di puro ordine estetico. Matteo Renzi è abile comunicatore. La gente si scontra perché alcuni dicono sì, Matteo è il migliore, altri no, Matteo è vuoto. Matteo è dicotomico: è l’uno e l’altro. Mentre twitta c’è una telecamera che lo riprende che twitta. Parla contemporaneamente al popolo della rete e a quello della rete che trasmette la sua intuizione: la video-chat in diretta tv; un carpiato nel modo di maneggiare il messaggio. Matteo Renzi conosce bene il messaggio come il messaggino. E’ figlio del riferimento ‘basso’, culturalmente parlando, perché è un nativo televisivo. Questo non significa che non abbia in mente McLuhan. Quando presenta il libro di Roberto Cavalli, fa comunicazione. Questo non significa che non conosca “L’opera d’arte nell’era della sua riproducibilità tecnica” (Walter Benjamin), e che non abbia riflettuto sulle conseguenze sociali della perdita d’aura dell’oggetto d’arte. Anzi. Matteo Renzi è un caso di sostanziale riproducibilità tecnica della comunicazione politica, sul modello di altri originali cui egli stesso si riferisce (Obama, Blair) – senza ancora le punte di psicopatologia del genio che sono io (Nanni Moretti), toccate da Berlusconi-Napoleone. Matteo Renzi, se pranza con Flavio Briatore, non vade retro satana, ma intende dire qualcosa, anche solo che non vade retro satana.
Siamo davanti ad una nuova epoca, quella del Renzianesimo: un nuovo Umanesimo. Al centro del mondo (di nuovo Firenze), l’uomo, sotto ai quarant’anni (guai a ridurre la cosa al falso mito dell’anagrafe), che abbia perso il carattere recessivo di destra e sinistra, che sfidi la condizione seriamente inibente quanto sconfortante della provvisorietà (da alcuni detta precariato) a favore di una concezione del tempo infinito, dove tutto possa mirare ad una giustissima terra promessa nella quale Bene e Male abitino finalmente separati. Il Renzianesimo è rivoluzionario, è vero, perché per la prima volta dall’era della discesa in campo, il campo sembra sgomberato. Il fatto stesso che ci sia posto, o che sembri che ci sia, ha migliorato dunque la percezione della salute mentale dell’italiano. Non è vero che è un merito da steccare con Beppe Grillo. Grillo non c’entra col Renzianesimo, perché invece di ‘mandare tutti a casa’, ha lanciato un Cavallo di Troia contro il Parlamento, e osteggiando la palude, l’ha allagata. Invece Massimo D’Alema, che pure conosceva la lezione dell’Umanesimo Marxista, una mattina, s’è svegliato e: bello, ciao, ciao, ciao, s’è ritrovato fuori dai giochi; lui- sembra impossibile ma è così. E’ Matteo Renzi, che piaccia o meno, che desti simpatia o no, ad aver ridato una cosa che appare inconsistente in anni di testa china sulla misurazione della propria miseria, invece è linfa vitale, eh sì, si chiama SPERANZA, una di quelle parole notevoli, ultima a morire, a cui Matteo Renzi ha offerto uno spritz (per riderla con Crozza), o le ha fatto una respirazione bocca a bocca (con quella bocca poteva dire tutto, infatti). Che duri un secolo o un secondo, fa bene come una risata liberatoria, l’avvento messianico del Renzianesimo (un messia diminuito, Matteo evangelista, che vende parabole – non ancora quelle di Sky – in lingua corrente, capibili da tutti, e che per fare i suoi miracoli italiani non ha sette giorni, ne ha molti di meno, prima d’essere ascritto anche lui alla casta dei promisi ma non mantenni).
Valerio de Filippis