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VASCO BRONDI,
NON SIAMO SOLO NOI

VASCO BRONDI, <br>NON SIAMO SOLO NOI

Un altro Vasco si aggira in Italia, con una combriccola che si chiama “Le luci della centrale elettrica”, anche se porta un cognome da prodotto telefonico nostrano: Brondi (che è sempre meglio dell’anonima onomastica del Rossi). Andiamo a vedere le luci di questo Vasco Brondi, che chiama cara la catastrofe, che ha un immaginario bellico e postatomico e per quanto nessuno sappia mai bene cosa significhi, totalmente postmoderno, anzi già postumo al postmoderno, e usa l’idioletto cantautorale con grande sapienza. Brondi ha gli occhi lucidi come le Mercedes, vede uscire missili dallo sguardo di una donna, ha spesso una visione mediata e scorata del mondo: “ci guardavamo riflessi sulle vetrine/arrivederci amore, tra 8 ore andremo ad abortire/ tra i campi di mimose, tieni le lacrime/per irrigare questo mare nero, nero mare/ci troveremo a camminare tra le fabbriche lunghe come l'orizzonte/per una constatazione amichevole del nostro niente”. Egli canta l’amore al tempo dei licenziamenti dei metalmeccanici, conosce un tu che “sorridevi agli autovelox”, si muove col “motore eterno del nostro furgone”, scoprendo lo sciamare umano “come tante utilitarie per conformarci ad un certo modello di dolore/per un malinteso senso del progresso”. Egli ha il degregorismo sempre in mano “non c'è niente da capire non c'è niente da capire”, il giovanni lindo ferrettismo nell’anima, come rimando ferito e nostalgico “e i CCCP non ci sono più”, fa la lotta armata al bar, usa il distico in forma di attrito tragicomico: “Sarà la prima volta che non andrò a votare,/sarà la prima volta che non andrò a puttane”. Il giovane cantautore ferrarese accetta volentieri un livello di ragionamento ultraterreno “Fammi i tuoi discorsi metafisici sui fori dei piercing che si richiudono”. Per Paolo Talanca, critico musicale del Fatto Quotidiano, Vasco Brondi “è l’unico tra i cantautori della nuova generazione che riesce a rendere la tensione della poesia moderna. La poesia del Novecento, quella che gronda sangue e disfacimento della forma, e trasforma le cose intorno. Il “poetico realismo” di cui parla lo statuto del Club Tenco, per intenderci; e che fu dello stesso Tenco, con altri suoni e altre parole, con un’altra società da raccontare”. Quest’altro Vasco ha da poco pubblicato il terzo LP di inediti, “Costellazioni”. E’ bene che l’ambizione trasudi e che all’agonia tipica della canzone si aggiunga una ideale cosmogonia, cioè una visione alta e diversa del reale, specialmente ora che “hai finito i soldi passano altri inverni invecchiano anche i musicisti anche i tempi postmoderni”, come si sente in uno dei pezzi meglio riusciti, quel “Macbeth nella nebbia”. E’ giunto il momento cruciale perché “Questa forse è finalmente la notte dei tempi, dei tempi dispari”. Il momento dei conti che tornano, del fare pari, arresi al fatto che è “inutile proteggersi dai venti forti, dai migliori anni”. Nell’ossessione allo sguardo (Brondi produce decine di immagini sulla vista), la canzone shakespeariana finisce per dire che “Negli occhi ci sono degli incendi/qualcosa è riuscito a cambiarti/adesso che voli sui ghiacciai sulle città sui deserti/ti accorgi che nel disastro/il futuro era sempre lì/a sorriderci”. Insomma la catastrofe è cara perché nel disastro il futuro era sempre lì, a sorriderci, ed era una catastrofe solo perché avevamo i fumogeni negli occhi, e non lo vedevamo. Il senso di sollievo che si ha all’uscita di ogni galleria, anche in forma d’abbaglio per l’occhio da pipistrello cui siamo abituati dopo anni di tunnel perenne, si respira in tutto l’album, ed è la prova che l’opera è riuscita. Brondi con ”Costellazioni” sbuca oltre la retorica cupa del nerofumo del mondo esploso, che ti si posa incessantemente come cenere addosso, cola oltre il postmoderno, sembra che le sue luci non siano più di una centrale elettrica, ma di un più primordiale braciere, segno di una nuova comunità musicale (anche la musica è infatti più allegra, vitalistica, leggera), che lascia il suo bambino, sull’orlo della fine, morto il padre, nelle mani di una speranza, come succede nell’ultima scena di quel meraviglioso libro di McCarthy, “La strada”.

Valerio De Filippis

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