“Il nome ‘minibot’ è fuorviante ed è chiaramente stato scelto per questioni di marketing politico”. Così Alessandro Pedone, responsabile Aduc Tutela del Risparmio, che interviene sul tema sottolineando che “la mozione votata ‘per sbaglio’ all’unanimità da tutte le forze politiche”, del 28 maggio scorso, prevede che per accelerare il pagamento dei debiti commerciali delle pubbliche amministrazioni si possa concedere, su base volontaria, dei titoli che non avrebbero un tasso d’interesse e nessuna scadenza, ma potrebbero essere utilizzati per pagare qualsiasi obbligazione nei confronti della pubblica amministrazione e sarebbero pagabili “al portatore”. In sostanza “una moneta parallela all’Euro”. Quindi ricorda che “l’idea di pagare i debiti commerciali con Titoli di Stato ‘normali’ (cioè fruttiferi d’interessi) fu proposta a suo tempo dal Pd di Bersani ed il Governo Monti tentò concretamente di realizzarla, ma le parti sociali sostanzialmente non accettarono (salvo le banche che effettivamente fecero un’operazione di questo genere)”. “Se il Governo imponesse ai cittadini italiani di saldare i propri debiti in una moneta parallela all’Euro - sottolinea - violerebbe certamente il Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea, ma se l’utilizzo della moneta parallela fosse su base volontaria, cioè si continuerebbe ad applicare l’art. 1278 del codice civile” e “niente potrebbe impedire, quindi, all’Italia – come a qualsiasi altra nazione – di organizzare un circuito monetario complementare all’Euro, utilizzabile su base volontaria, ed in grado di aumentare la massa monetaria in circolazione”. Per l’esperto si tratta quindi di una “questione interpretativa dei trattati”. E conclude: “Non esiste nessuna specifica norma prescrittiva nei trattati che vieti l’introduzione di una moneta parallela non avente corso legale, ma questa mossa – qualora fosse concreta – sarebbe politicamente deflagrante”.
MINI ASSEGNI. Vincenzo Donvito, presidente Aduc, ricorda che “correvano gli anni ‘70 del secolo scorso, verso la metà, farsi dare un resto in monete era un’impresa, c’era carenza di metalli e la Zecca di Stato non provvedeva. Oltre a resti con gettoni telefonici, francobolli, caramelle e cioccolatini, grazie all’Istituto Bancario San Paolo di Torino, su pressione dell’Associazione dei Commercianti, comparvero sul mercato degli assegni circolari di dimensione ridotta, che per questo furono chiamati miniassegni, con tanto di intestatario e girata, del valore di 50, 100, 150, 200, 250, 300, 350 lire. Visto il rapido successo incontrato grazie al sollievo dei consumatori, quasi tutte le banche emisero i loro titoli: oggi si calcola che furono oltre 30 gli istituti bancari emittenti e che circolarono quasi mille tipologie diverse di miniassegni per un valore di molte centinaia di miliardi di lire. Ma non solo banche. Anche supermercati, come Upim e La Rinascente, emisero dei buoni merce; e poi le autostrade di Venezia, l’Ente Turismo di Genova, lo stabilimento alimentare Star, gli agricoltori di Ferrara... Nel 1978 la Zecca fu di nuovo in grado di coniare moneta ed introdusse sul mercato per la prima volta la moneta da 200 lire. Pare che sia stato di 200 miliardi di lire il valore di questi assegni mai riscossi, molti dei quali, di mano in mano, e di tasca in tasca, si deterioravano facilmente e finivano nella spazzatura anche se con 50 lire (poco meno degli attuali 3 centesimi) ci si comprava un bel gelato. Un buon affare per chi li aveva emessi. Il pensiero ai miniassegni ci è stato stimolato dai minibot (anch’essi di piccolo taglio), anche se il creditore in questo caso sarebbe unico, lo Stato. C’é a fidarsi? Ufficialmente sì. Ma è bene ricordare, anche in questo caso, che quando c’é stato il passaggio dalla lira all’euro, ad un certo punto il governo Monti decise che se non si cambiavano le lire oltre una certa data (6 dicembre 2011), le stesse erano da considerarsi carta straccia. E così è stato, e non poche cause sono ancora in corso”. (Red – 24 giu)
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