POESIA, BARBATO COGLIE IL FIORE DELL’ATTESA
La sua poesia “accompagna gentilmente i lettori in prossimità di un pericolo, e di un azzardo, che è un’altra forma del pericolo: la sosta alla contemplazione di sé, questo il pericolo, il fascinum della dilatazione dello spirito, questo è l’azzardo". Così Angelo Favaro, docente all’Università di Tor Vergata, introduce “Il fiore dell’attesa” di Alessandro Barbato, silloge pubblicata da Ofelia editrice. Si tratta di un’opera prima per l’autore, insegnante di professione e poeta per “necessità”, come confessa nella nostra intervista; un’opera che restituisce parte di un percorso esistenziale e intellettuale complesso e originale, che ha visto negli anni scorsi Barbato – storico delle religioni e antropologo di formazione - approfondire a livello accademico le connessioni con queste due discipline delle opere di Pier Paolo Pasolini, un autore la cui ricchezza è tutt’altro che pienamente venuta alla luce. “L'alternativa fantasma. Pasolini e Leiris: percorsi antropologici” (Libreria universitaria, 2010) è il titolo del saggio in cui Barbato ha comparato le riflessioni del poeta e regista friulano con quelle dello scrittore ed etnologo francese Michel Leiris, in apparenza lontane ma accomunate da un'Africa “sacra” e “mitica” che per entrambi rappresenta una preziosa e vitale alternativa alla “decadente civiltà borghese”. Un percorso, quello di Barbato, che si è spinto anche oltre i nostri confini, come dimostra l’articolo “Pasolini l’Africain” pubblicato nel 2014 su Gradhiva, rivista francese tra le più autorevoli al mondo nel settore dell’antropologia culturale. Oltre i confini, però, l’autore si muove anche tra i diversi ambiti umanistici, convinto com’è che poesia e scienze umane costituiscano “quasi facce polari di una stessa medaglia; quella nel cui centro troneggia l’essere umano, non il mercato”.
"Lascialo infine inchinare lo stelo: / fallo morire l’inutile fiore / senza voltarti a guardarlo tremare": che cosa rappresenta "Il fiore dell'attesa" che dà il titolo al libro?
Il titolo della silloge è il frutto di una lunga riflessione, durante la quale mi sono confrontato con il mio editore, Fabio Carbone, che si è dimostrato davvero attento a ogni dettaglio, oltre che assolutamente competente. Il concetto di “attesa”, intesa come timoroso indugio o, al contrario, come il fremente desiderio di una epifania, era il centro nevralgico dei miei componimenti e non potevo che partire da lì. Un’attesa che però non è mai passiva rassegnazione, anzi, da tali momenti di sospensione possono nascere riflessioni, intuizioni, può sorgere persino l’ispirazione poetica - il fiore, appunto -, qualcosa di bello, gratuito e “nobilmente inutile” che potremmo mettere all’occhiello delle nostre giornate, delle nostre vite. Ho utilizzato il termine “fiore”, però, anche in senso tradizionale: come veniva usato in certe raccolte dei secoli passati, come dire “il meglio di”: ecco, non tutte le attese generano fiori, poesie; in qualche caso, però, mentre siamo qui che aspettiamo, sboccia qualcosa altrove…
"Il fiore dell'attesa" è articolato in due sezioni, "Temporali" ("Ti basta il mormorio / dei temporali più lontani / e il loro odore? Oppure aspetti / sempre quella goccia che non viene?") e "Stagioni" ("È giunta la stagione del rientro / ed io non do più corpo / ai desideri informi"). Cosa evocano queste due immagini nella sua poesia?
Sì, due sezioni non prive di echi e rimandi intertestuali, quasi che una fosse il completamento dell’altra. I temporali mi hanno sempre affascinato, meglio ancora se improvvisi. Nel mio libro essi rappresentano il violento materializzarsi dell’ispirazione, la pioggia che unisce cielo e terra in una sorta di comunione fertile da cui germoglieranno nuovi raccolti. Quando ho scelto “temporali” come titolo della prima parte, inoltre, ho pensato anche a una splendida definizione di “fantasia” che Calvino dà nelle “Lezioni americane”, ovvero un posto in cui piove dentro. Stagioni, invece, rinvia alla circolarità, al ritorno, al ritmo cadenzato del tempo: quello che volevo era proprio accostare l’idea di uno squarcio improvviso e violento - il temporale – con l’eterna certezza rappresentata dal ritorno delle stagioni.
"Un tempo mi hanno detto / di una rara dimensione / dove vedi le parole e che ne / gusti anche il sapore": come funziona il suo lavoro sulla parola?
Confesso che la cosa che più mi attrae delle parole è la loro dimensione fonetica, la loro musicalità, di solito parto da lì: una parola mi colpisce per come suona, armoniosa o stridula, credo che molto della forza evocativa del linguaggio risieda appunto in quella sonorità magica che in qualche caso ci fa percepire un termine come se fosse la prima volta che lo ascoltiamo. Poi chiaramente le scelte lessicali sono determinate anche da altri fattori che non è sempre semplice spiegare, diciamo che vorrei che i miei testi fossero una sorta di partitura dei sentimenti, delle idee, un contrappunto melico al vivere. Insomma, penso alla poesia ancora come a una musa che canta…
"Ricordo che già piccolo / ridevo quando all’improvviso /un tuono come un dardo /mi infiammava il cuore brullo...": nelle sue liriche il tema dell'infanzia ricorre di frequente. Un tempo irrimediabilmente perduto e vissuto con nostalgia rispetto all'orizzonte attuale, "minimo, consunto", oppure una dimensione di sé sempre presente?
Direi che si tratta di un tempo sempre presente proprio in quanto nostalgia, senza che quest’ultima, però, si traduca in un patologico desiderio regressivo. La parola nostalgia ha una etimologia molto bella che rinvia al dolore causato dalla volontà di tornare a qualcosa, qualcuno che si è perduto. La poesia permette, almeno illusoriamente e per un periodo più o meno breve, proprio di tornare a ciò che è stato, per esempio all’intatta meraviglia che scandisce l’infanzia, quando i cieli sembrano abitati da chissà quali potenti numi e gli orizzonti sono meno consunti di quelli di un quarantenne…
Un tema presente come quello del sogno: "non è certo / la voce di qualche prodigio / quello che cerco, che inseguo, che voglio, / ma quei momenti poco importanti /in cui si annida la vita dei sogni". Cos'è il sogno nel "Fiore dell'attesa"?
Il sogno è l’altra parte di noi, quella che ci completa, quella ci può permettere di capire dove stiamo andando prima ancora di renderci conto di aver iniziato il cammino. È la dimensione poetica per eccellenza, quella in cui tutto può accadere. L’altra parte della vita, quella che dovremmo accogliere il più possibile nel tentativo di una esistenza autentica, completa. Nel libro il sogno, oltre tutto quel che accennavo, rappresenta probabilmente il luogo in cui certe attese si placano, certi disegni, anche se destinati a restare a matita, si realizzano…
In una delle sue liriche omaggia Carl Gustav Jung: "Galleggio sopra strati / d’un mare innavigabile, / ma navigo le terre / sottratte alla Natura". A suo avviso arte e scienze umane possono essere alleate nell'ottica di un umanesimo in grado di rispondere alle sfide del presente?
Credo proprio di sì. Nell’attuale scenario politico ed economico si guarda sempre ai saperi considerati più tecnici e settoriali per rispondere alle esigenze di una società enormemente complessa e sempre più liquida, per usare una celebre definizione di Bauman. Tutto ciò in un certo senso è legittimo, tuttavia credo che arte e scienze umane possano rappresentare una lente di ingrandimento differente, in grado di farci percepire dettagli colpevolmente trascurati. Si tratta di strumenti che probabilmente consentirebbero un approccio più originale, rivoluzionario e innovativo a certe sfide che la modernità porta con sé, a patto di essere appunto più vicine di quanto non siano ora, quasi facce polari di una stessa medaglia; quella nel cui centro troneggia l’essere umano, non il mercato.
Nell'opera si rintracciano rimandi al Leopardi della Ginestra ("ritorna ad esser lieto dei deserti"), all'Ungaretti del Porto Sepolto ("altri inganni da inseguire / per resuscitare un porto /che si sa, se c’è, è sepolto") fino al Montale dei Limoni ("I miei limoni sbiancano /racchiusi nell’abbraccio senza luce /del telone d’incerata / che li ammanta"). Quali sono i suoi autori di riferimento?
Sicuramente i tre mostri sacri citati nella domanda sono per me autori importanti e, soprattutto Ungaretti e Montale, veri e propri punti di riferimento cui torno con una certa insistenza. Apprezzo molto Umberto Saba, anche, per la sua capacità di dare voce alla propria ispirazione poetica senza preoccuparsi troppo di aderire ai canoni di una determinata corrente e per le sue scelte lessicali: adoro la sua complessa semplicità. Credo inoltre che i toni delle mie poesie abbiano un debito anche nei confronti dei crepuscolari, ma apprezzo molto anche poeti assai diversi dal mio modo di scrivere, come Pasolini e Penna, per esempio, così come autori più recenti come Pierluigi Cappello.
"...lasciamo affievolirsi i rari spasmi dei poeti...": alla luce anche della sua esperienza di insegnante, è ancora attuale oggi la poesia? È ancora in grado di parlare al nostro tempo?
Io sono convinto di sì. Incredibilmente la poesia sta vivendo una sorta di nuova fioritura proprio grazie ai social e ai nuovi strumenti di comunicazione che tanto piacciono ai giovani e non solo a loro, sono centinaia le pagine facebook che si occupano, in modo più o meno pertinente, di poeti e di poesia. Anche la mia esperienza di insegnante conferma che la poesia è ben lontana dall’essere giunta al suo crepuscolo. Quest’anno in un terzo liceo ho assegnato un elaborato che riguardava proprio il ruolo della poesia nella società contemporanea e le risposte dei ragazzi sono state tutte concordi: forse in forme diverse rispetto al passato, attraverso canali espressivi inediti, ma la poesia continuerà ad accompagnare il cammino dell’uomo. Naturalmente sta a noi saperla scovare e celebrare: Flaubert scrive in una delle sue lettere che un tempo si estraeva lo zucchero solo dalle barbabietole, ormai invece se ne ricava da una infinita gamma di prodotti naturali; allo stesso modo dovremmo fare con la poesia, estraiamola da ogni cosa perché è dappertutto! Certo, la questione si fa un po’ più cupa se guardiamo al mercato editoriale, ma forse si tratta di un discorso diverso rispetto a quello posto dalla domanda.
"...fammi uomo /pronto a cedere ai tramonti, /alla carne che si imbruna, alla viola /che appassisce. Dammi forza /per sfiorire nell’amore quando nasce / e in tutto quello che finisce". Perché la sua è una "preghiera irrilevante", come il titolo della poesia da cui sono tratti questi versi?
Volevo mantenermi lontano da ogni idea di solennità, da ogni tentazione di porsi come profeta di chissà quali mondi poetici sommersi e irraggiungibili dai comuni mortali. Pensavo a questo quando dicevo delle influenze dei crepuscolari, alla loro - talvolta pateticamente esibita – marginalità che è però al tempo stesso anche il segno di una esperienza poetica che più che un privilegio rappresenta una necessità. La mia preghiera è irrilevante perché non ha nessun potere di influenzare i destini degli umani e men che meno la volontà di una ipotetica divinità, è solo l’espressione di un bisogno eternamente umano, una necessità quasi biologica, insopprimibile ed eterna, proprio come la poesia. (Roc – 5 ago)
LUCA ORTINO CI GUIDA ALLA PERCEZIONE DEL TEMPO
Un appassionante viaggio all’interno della quarta dimensione. Nell’epoca dell’eterno presente Odoya edizioni presenta “Guida alla percezione del tempo” di Luca Ortino (prefazione di Robert Silverberg tradotta da Roberto Chiavini, con testi di Roberto Chiavini, Laura Dalfino, Alessandro Fambrini, Chiara Onniboni, Luca Ortino, Laura Rizzo, Chiara Selmi; postfazione Loris Pinzani), testo che propone una serie di riflessioni e un’affascinante raccolta di informazioni sulla percezione del tempo nei suoi vari aspetti.
LETTERATURA. Se nella parte dedicata alla letteratura la fantascienza domina, tematizzando il viaggio nel tempo e tutto quello che ne può derivare come gli universi paralleli (oggi meno fanta e più scientifici grazie alla teoria delle stringhe), certamente Ortino e gli altri contributors non trascurano i classici come la Recherche proustiana, oppure Ovidio e Seneca (indagati da Roberto Chiavini) , ma anche Kundera con i suoi immortali brani dedicati alla lentezza e un intero capitolo sul rapporto tra letteratura tedesca e tempo a cura del germanista Alessandro Fambrini. Brani importanti descrivono il tempo vero e proprio, quello della fisica, con le teorie della relatività per l’infinitamente grande e dei quanti per l’infinitamente piccolo, con gli scienziati odierni alla ricerca della teoria del tutto che concili le due teorie. Anche il buco nero nella galassia M 87 ha poi la sua parte, questo “divoratore” di materia “fotografato” grazie a otto antenne radiotelescopiche perfettamente sincronizzate tramite orologi atomici. Ma non finisce qui: la canzone italiana ha il proprio tempo e lo hanno la malattia e la cura.
PSICOLOGIA. Infine, importantissimo, il tempo psicologico tra sogni e “relatività” del tempo personale. I ritmi mentali spesso scanditi dalla paura del futuro (esagerata nella patologia) e passibili di disattenzione alla lettura del momento stesso “come se la vita andasse scavalcata e non vissuta” sostiene l’eminente psicologo Loris Pinzani che firma la postfazione del volume. Insomma un libro che propone una riappropriazione del tempo a discapito dell’eterno presente distratto: questa guida invita alla riflessione, alla cura di se stessi, alla lettura e all’effettiva percezione di quello che stiamo vivendo. Ortino ha curato antologie di racconti di genere, soprattutto fantascienza, noir, horror, western. Ha codiretto, con il Gruppo Maelstrom di cui fa parte, collane dedicate al recupero della narrativa pulp degli anni Trenta per Fratini Editore e La Ponga editrice. Per Odoya è coautore di Guida alla letteratura noir (2018) e La luna nell’immaginario. Storia, letteratura, cinema (2019).
EDUCAZIONE PERMANENTE E SOCIETÀ INTERCULTURALE
L’istruzione scolastica iniziale, fondamentale nella vita di ciascuno, non esaurisce le necessità di apprendimento utile per la crescita umana. La formazione deve dipanarsi e svilupparsi lungo tutto l’arco della vita delle persone, fino alla terza e quarta età, come richiede la complessità della società moderna e l’invasiva diffusione delle tecnologie nella vita quotidiana, rispettando, però, le diverse fasi dell’esistenza, le età e le condizioni di ciascuno. Questi i temi affrontati in “Educazione permanente e società interculturale”, a cura di Angela Maria Volpicella e Giorgio Crescenza (Edizioni conoscenza). Il testo è costruito attraverso un dialogo tra generazioni, tra istituzioni educative formali e non formali, tra diverse fasi della vita, proponendo analisi, modelli, buone pratiche. La formazione è un affare dell’intera comunità con le mille sfaccettature che essa presenta e delle sue relazioni col mondo e con le diverse culture.
I CANNIBALI DI MAO, LA NUOVA CINA ALLA CONQUISTA DEL MONDO
Come mai la Cina, fino a ieri produttore di mercanzia a basso costo, oggi domina il mercato high-tech mondiale, si impone come attore globale, assume il controllo economico e finanziario di intere nazioni ed è in grado di “richiamare all’ordine” persino gli Stati Uniti d’America? In “I Cannibali di Mao. La nuova Cina alla conquista del Mondo” (Rubbettino) Marco Lupis ci spiega l’origine del nuovo potere globale cinese, quali sono le sue radici e dove ci sta portando. Lo fa cominciando da quell’alba umida e rovente del 1995 quando - giovane reporter poco più che trentenne - atterrava per la prima volta nella sua vita nel vecchio aeroporto Kai Tak di Hong Kong, lembo di terra in Cina, allora ancora saldamente colonia di Sua Maestà la Regina d’Inghilterra, e aveva inizio così quella che lui stesso ha definito: “Una vera storia d’amore, vissuta non con un’altra persona, ma con un continente, l’Asia, e con un popolo in particolare: i cinesi”. E in Cina, basato a Hong Kong, ci rimarrà – salvo brevi pause – fino a oggi, raccontandone ai lettori – da corrispondente delle maggiori testate italiane e della Rai – l’attualità più stringente, gli avvenimenti più imprevisti e curiosi, e quella diversità che la rende unica. Ricco di notizie e di avventure, di emozioni, testimonianze e anche ironia, questo libro è un ininterrotto reportage lungo venticinque anni e un irripetibile diario di viaggio, ma soprattutto è l’appassionante romanzo della storia umana di un giornalista, di un uomo, che ha attraversato le trasformazioni e gli sconvolgimenti degli ultimi decenni in Cina, e per questo è in grado, più di molti altri, di aiutarci a comprendere l’attualità e i pericoli rappresentati dalla Cina di oggi. Giornalista, fotoreporter e scrittore, l’autore è stato corrispondente e inviato speciale dall'Estremo Oriente e soprattutto da Hong Kong, per le maggiori testate giornalistiche italiane (Panorama, Il Tempo, Corriere della Sera, L'Espresso e la Repubblica) e per la Rai (Mixer, Format, TG1 e TG2). Lavorando spesso in zona di guerra, è stato fra i pochi giornalisti a seguire i massacri a Timor Est, gli scontri sanguinosi tra cristiani e islamici nelle Molucche, la strage di Bali e l'epidemia di Sars. Con le sue corrispondenze ha coperto per oltre un decennio l'intera area Asia-Pacifico, spingendosi fino alle isole Hawaii e all'Antartide. Ha intervistato molti protagonisti della politica asiatica come Aung San Suu Kyi e Benazir Bhutto, denunciando nei suoi articoli le violazioni dei diritti umani in Asia. I suoi reportage sono stati pubblicati anche da quotidiani spagnoli e americani. Ha pubblicato Interviste del Secolo Breve, (Edizioni del Drago, 2017) tradotto in sette lingue.
SERGIO DEL MOLINO RACCONTA LA “SPAGNA VUOTA”
La Spagna, come altri paesi europei tra cui l’Italia, ha visto svuotarsi nel corso dei decenni parte del suo territorio. Questo fenomeno inizia nel dopoguerra con l’abbandono delle campagne e delle province e il rapido processo di inurbamento prima verso Madrid e Barcellona e poi a favore di città di medie dimensioni come Saragozza, dove vive l’autore Sergio del Molino. È da qui che inizia un viaggio nel tempo e nello spazio, attraverso le zone profonde e semidisabitate della penisola iberica, nella densità della Storia e nella rarefazione del presente della “Spagna vuota” (titolo del libro tradotto dallo spagnolo da Maria Nicola ed edito da Sellerio), termine da lui coniato e che è entrato nel lessico contemporaneo. Dosando eventi storici, fatti di cronaca, letteratura, cinema, cultura alta e popolare, lo scrittore indaga cause e circostanze, e riflette sulle conseguenze di tale desertificazione umana sulla vita sociale, politica e privata degli spagnoli. Studiando il fenomeno del Molino scopre cose inaspettate: forse una “Spagna piena” non è mai davvero esistita, e attorno a quegli agricoltori che oggi sono oggetto di un recupero nostalgico esistono dei miti, delle leggende nere di cupa ferocia che narrano di folli atti di violenza. Al tempo stesso rintraccia un orgoglio che a partire dagli anni Trenta, dalle Missioni pedagogiche che portano la cultura nei villaggi, arriva ai nostri giorni, ai giovani maestri e professori destinati alle scuole di campagna che si sobbarcano ore di viaggio per raggiungere luoghi dove non c’è quasi più nulla e nessuno. Emerge così un ritratto letterario, politico e culturale rivelatorio anche per i lettori italiani, perché come scrive del Molino nella prefazione a questa edizione, “esiste un’Italia vuota, soprattutto nel sud, dove i fenomeni dei paesi abbandonati, dell’invecchiamento della popolazione e dello spopolamento sono analoghi a quelli spagnoli”. Il suo libro è un gesto d’amore per il carattere di una nazione, per la peculiarità della sua demografia, per la temperatura sentimentale del suo territorio e dei suoi abitanti. Sergio del Molino, nato a Madrid nel 1979, è scrittore e giornalista e collabora con diversi quotidiani e programmi televisivi. Ha esordito nel 2009 con la raccolta di racconti Malas influencias, seguita nel 2012 dal romanzo No habrá más enemigo. Con Sellerio ha pubblicato Nell’ora violetta (2017), Premio El Ojo Crítico 2013 e Premio Tigre Juan, e La Spagna vuota (2019), Premio dei librai di Madrid 2017, Premio Cálamo come libro dell’anno.
GEORGES SIMENON E IL MEDITERRANEO IN BARCA
Che Simenon sia un prodigioso narratore è a tutti noto. Ma forse non tutti sanno che, in particolare fra il 1931 e il 1946, è stato un reporter non meno prodigioso – e singolare. Singolare perché, lungi dal considerarsi un inviato speciale, i suoi reportage li ha scritti per sé, per viaggiare, per finanziare la sua curiosità. Quella curiosità nei confronti dell’uomo che ha scoperto in sé sin da quando, giovanissimo, lavorava alla “Gazette de Liège”: “Ho sempre colto la differenza fra l’uomo vestito e l’uomo nudo” ha dichiarato. “Intendo dire l’uomo com’è davvero, e l’uomo come si mostra in pubblico, e anche come si vede allo specchio”. Così, alla vigilia di ogni viaggio, Simenon andava da un amico caporedattore e gli diceva: “La settimana prossima parto. Le interessano dodici articoli?”. Ma proprio perché concepiti in funzione dell’unica attività che gli stesse a cuore, la scrittura – non a caso ha voluto intitolare il volume che li raccoglie Mes apprentissages («Il mio apprendistato») –, i suoi pezzi giornalistici non fanno dunque che rivelarci un’altra faccia del Simenon romanziere. Lo dimostra questo resoconto di una crociera compiuta nel Mediterraneo – da Porquerolles alla Tunisia passando dall’Elba, Messina, Siracusa, Malta – a bordo di una goletta: una lunga crociera durante la quale Simenon, che si era ripromesso di capire e descrivere il Mare nostrum, non potrà che confermarsi nella sua vera vocazione, la stessa di Stevenson: raccontare storie. “Il Mediterraneo in barca” (traduzione di Giuseppe Girimonti Greco e Maria Laura Vanorio, con una nota di Matteo Codignola) è pubblicato da Adelphi.
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