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Fiume, il caso mediatico
nella guerra civile italiana

Libri
Ogni settimana uno scaffale diverso, ogni settimana sarà come entrare in una libreria virtuale per sfogliare un volume di cui si è sentito parlare o che incuriosisce. Lo "Speciale libri" illustra le novità delle principali case editrici nazionali e degli autori più amati, senza perdere di vista scrittori emergenti e realtà indipendenti. I generi spaziano dai saggi ai romanzi, dalle inchieste giornalistiche, alla storia e alle biografie.

Fiume, il caso mediatico <BR>  nella guerra civile italiana

FIUME, IL CASO MEDIATICO NELLA GUERRA CIVILE ITALIANA  

Il fatto che la città di Fiume – in croato Rijeka - succeda quest’anno a Matera come Capitale europea della cultura, proponendosi come “porto della diversità”, non è certo l’unico motivo di interesse per accingersi alla lettura di “Fiume 1919. Una guerra civile italiana”, saggio dello storico Marco Mondini pubblicato dalla casa editrice Salerno e dedicato all’esperienza della comunità di giovani, artisti, ribelli e fanatici che nel 1919 diede vita all’“impresa”, sedotti dalle parole del Vate Gabriele D’Annunzio. Il libro, tra l’altro, sarà presentato il 17 gennaio alle 17.30 in un incontro con l’autore a Poggibonsi (Siena) presso la Sala Set Politeama. L’Italia del 1919, come d’altronde quella di oggi, “non era un paese tranquillo”: basta questa riflessione di Mondini a giustificare la scelta di accendere i riflettori su quegli eventi e su quel periodo, su un Paese “lacerato dagli scontri tra fazioni politiche che si accusavano l’un l’altra di tradimento ed eversione, paralizzato da scioperi continui, squassato da scontri violenti nelle piazze e nelle campagne, terrorizzato da squadre armate al servizio di movimenti politici di ogni colore: nel caos di un’Europa che stava cercando (senza molto successo) di lasciarsi alle spalle i lutti e le distruzioni della Grande Guerra, l’Italia offriva lo spettacolo di una polveriera sul punto di esplodere”. Un Paese in cui la vittoria non aveva sanato le antiche fratture della comunità nazionale e in cui “quei non molti alfabetizzati e semi tali che si informavano attraverso quotidiani e riviste illustrate impararono un nome che riassumeva tutti i guai che la vittoria stava generando: Fiume. In pochi casi, nella storia dell’Europa moderna, un’invenzione mediatica ha pesato così tanto sul destino di un paese intero”. La questione di Fiume, città italiana di lingua e cultura - all'epoca parte del Regno d'Ungheria - che il governo di Roma aveva omesso di chiedere tra i compensi per l’intervento del 1915, sembrò catalizzare tutte le delusioni, le umiliazioni e le ingiustizie di un dopoguerra amaro. Si trattò della “creazione di un luogo capace di diventare vitale per l’identità nazionale, in grado di riassumere in sé simbolicamente l’intero senso della guerra e della pace, benché fino al 1919 ben pochi italiani sapessero della sua esistenza. In effetti, Fiume non era esattamente tra le priorità dell’opinione pubblica nazionale, né nel 1914 né durante il ‘maggio radioso’, l’anno successivo”. Fu un opuscolo pubblicato dalla macchina della propaganda interna nel dicembre 1917, in cui si rivendicavano Istria e Dalmazia come parti essenziali del territorio nazionale, a fare in modo che molti italiani scoprissero “per la prima volta l’esistenza di questa città portuale di non enorme importanza”, non da ultimo “perché gli italiani che la abitavano non morivano dalla voglia di farsi annettere dal Regno nazionale. Fiume – sottolinea Mondini - fu un enorme equivoco, il frutto (avvelenato) perfetto di una guerra che era divenuta una mastodontica, e per molti aspetti incontrollabile, operazione di comunicazione di massa”. Tanto che, quando nei giorni di Natale del 1920 le truppe comandate dal generale Enrico Caviglia misero fine alla “Reggenza del Carnaro”, l’importanza della questione fiumana in termini di impatto mediatico era già scemata da tempo mentre l’astro di Mussolini e del Fascismo era in piena ascesa. La questione fiumana nacque dalla cultura dell’odio e della paura, costruita per organizzare consenso attorno alla grande carneficina industriale, che non si spense – insieme alle grandi attese generate dal conflitto –  dopo il novembre 1918: “Quando i cannoni tacquero sui fronti, le culture dell’odio e della paura istigate per anni sopravvissero” e “il paese scivolò quasi senza interruzione dalla guerra mondiale alla guerra civile”. Secondo l’autore non si può dire che la variante 1919 della formula “è tutta colpa dell’Europa” non abbia funzionato: “ancora oggi, il mito della ‘Vittoria mutilata’ è una delle leggende nere (infondate) più pervicaci circolanti a proposito della Grande Guerra italiana. Un mito di cui la città di Fiume divenne improvvisamente simbolo”. Mondini mette così in luce che “la lezione più importante che possiamo trarre dagli eventi di cento anni fa è proprio il monito che ci viene lanciato sul legame tra cattivo uso dei media e fine della democrazia”.

 

 

GIULIA CANEVA RACCONTA IL PINO DOMESTICO

“Quando ci si presenta si inizia dal nome. Il mio nome scientifico è Pinus pinea. Così mi ha chiamato Linneo, scegliendo come nome specifico pinea, quasi a dire ‘pino per eccellenza’. Il mio nome italiano è semplicemente pino domestico, pino da pinolo, pino ombrellifero”. Giulia Caneva racconta il pino domestico in un saggio pubblicato da Laterza. Il pino domestico è il vero simbolo di albero italico. Non a caso gli inglesi lo chiamano Italian stone pine e in Francia Pin d’Italie. È l’albero di casa nostra perché il paesaggio mediterraneo non è umile né dimesso. È grandioso, solenne, rifiuta la pompa dei colori esotici tropicali. Il pino, questo grande e maestoso albero, dall’odore penetrante, caratterizza, fino a diventarne l’icona, la macchia mediterranea dei litorali tirrenici, adriatici e ionici e delle isole di Sardegna e di Sicilia. L’autrice è Giulia Caneva è professore ordinario di Botanica ambientale ed applicata presso il Dipartimento di Scienze dell’Università Roma Tre. Svolge attività di ricerca nel campo della vegetazione termofila mediterranea e nei settori legati alla conoscenza, conservazione e valorizzazione dei beni culturali. Ha vinto nel 2012 il Grand Prix for Cultural Heritage/Europa Nostra (categoria ricerca) della Comunità Europea per l’opera Il codice botanico di Augusto (Gangemi 2010). Tra le sue più recenti pubblicazioni, Roma, Tevere, Litorale(a cura di, con C.M. Travaglini e C. Virlouvet, Croma 2017) e M-i/u-rabilia. Un giardino verticale sulle Mura di Lucca (a cura di, con P.E. Tomei, Gangemi 2017).

“AH L’AMORE L’AMORE”, L’ULTIMA INDAGINE DI ROCCO SCHIAVONE

Rocco Schiavone, vicequestore ad Aosta, è ricoverato in ospedale. Un proiettile lo ha colpito in un conflitto a fuoco, ha perso un rene ma non per questo è meno ansioso di muoversi, meno inquieto. Negli stessi giorni, durante un intervento chirurgico analogo a quello da lui subito, un altro paziente ha perso la vita: Roberto Sirchia, un ricco imprenditore che si è fatto da sé. Un errore imperdonabile, uno scandalo clamoroso. Questa la trama di “Ah l’amore l’amore” (Sellerio), la nuova indagine di Rocco Schiavone raccontata da Antonio Manzini. La vedova e il figlio di Sirchia, lei una scialba arricchita, lui, molto ambizioso, ma del tutto privo della energia del padre, puntano il dito contro la malasanità. Ma, una sacca da trasfusione con il gruppo sanguigno sbagliato, agli occhi di Rocco che si annoia e non può reprimere il suo istinto di sbirro, è una disattenzione troppo grossolana. Sente inoltre una profonda gratitudine verso chi sarebbe il responsabile numero uno dell’errore, cioè il primario dottor Negri; gli sembra una brava persona, un uomo malinconico e disincantato come lui. Nello stile brusco e dissacrante che è parte della sua identità, il vicequestore comincia a guidare l’indagine dai corridoi dell’ospedale che clandestinamente riempie di fumo di vario tipo. Se si tratta di delitto, deve esserci un movente, e va ricercato fuori dall’ospedale, nelle pieghe della vita della vittima. Dentro i riti ospedalieri, gli odori, il cibo immangiabile, i vicini molesti, Schiavone si sente come un leone in gabbia. Ma è un leone ferito: risulta faticoso raccogliere gli indizi, difficile dirigere a distanza i suoi uomini, non può che affidarsi all’intuito, alle impressioni sulle persone, ai dati sul funzionamento della macchina sanitaria. E l’autore concede molto spazio alla psicologia e alle atmosfere. Rocco Schiavone ha quasi cinquant’anni, certe durezze si attenuano, forse un amore si affaccia. Sullo sfondo prendono più rilievo le vicende private della squadra. E immancabilmente un’ombra, di quell’oscurità che mai lo lascia, osserva da un angolo della strada lì fuori. Manzini, scrittore e sceneggiatore, ha pubblicato i romanzi Sangue marcio e La giostra dei criceti, quest'ultimo pubblicato da Sellerio nel 2017. La serie con Rocco Schiavone è iniziata con il romanzo Pista nera (Sellerio, 2013) cui sono seguiti La costola di Adamo (2014), Non è stagione (2015), Era di maggio (2015), Cinque indagini romane per Rocco Schiavone (2016), 7-7-2007 (2016), Pulvis et umbra (2017), L'anello mancante. Cinque indagini di Rocco Schiavone (2018), Fate il vostro gioco (2018), Rien ne va plus (2019) e Ah l'amore l'amore (2020). In altra collana di questa casa editrice ha pubblicato Sull’orlo del precipizio (2015) e Ogni riferimento è puramente casuale (2019).

 

LO “STUDIOLO” DI GIORGIO AGAMBEN

“Studiolo” si chiamava nei palazzi rinascimentali la piccola stanza in cui il principe si ritirava per meditare o leggere, circondato dai quadri che amava in modo speciale. Il saggio pubblicato per Einaudi è per l’autore Giorgio Agamben una specie di studiolo. Ma non si comprende che cosa significhino per lui le immagini che cerca ogni volta di leggere e di commentare, se non si comprende che in questione non è uno spazio privato, ma innanzitutto un’altra esperienza del tempo, che concerne ciascuno di noi. Benjamin diceva che fra ogni istante del passato e il presente vi è un appuntamento segreto e che se si manca a quest’appuntamento, se non si comprende che le immagini che il passato ci trasmette erano dirette proprio a noi, qui e ora, è la nostra stessa consapevolezza storica che si spezza. La scommessa che tiene insieme le opere raccolte nello studiolo è, infatti, che esse, benché siano state composte in un arco di tempo che va dal 5000 a.C. ad oggi, giungano alla loro leggibilità soltanto ora. Per questo, malgrado l’attenzione ai dettagli e le cautele critiche che caratterizzano il metodo dell’autore, esse ci provocano con una forza e quasi con una violenza a cui non è possibile sottrarsi. Quando comprendiamo perché Dostoevskij teme di perdere la fede davanti al Cristo morto di Holbein, quando la Lepre di Chardin si rivela di colpo ai nostri occhi come una crocifissione o la scultura di Twombly ci mostra che la bellezza non possa in ultimo che cadere, l’opera d’arte è allora strappata dal suo contesto museografico e restituita alla sua quasi preistorica sorgività. E questo e non altro, suggerisce l’autore, è il compito del pensiero. Agamben ha insegnato in università italiane e straniere e la sua opera è tradotta in molte lingue. Tra i suoi libri recenti ricordiamo l'edizione integrale di Homo sacer (Quodlibet 2018); Autoritratto nello studio (nottetempo 2017); Karman. Breve trattato sull'azione, la colpa e il gesto (Bollati Boringhieri 2017); Il Regno e il Giardino (Neri Pozza 2019). Presso Einaudi ha pubblicato Stanze. La parola e il fantasma nella cultura occidentale (1977, 1993 e 2011); Infanzia e storia. Distruzione dell'esperienza e origine della storia (1978 e 2001); Il linguaggio e la morte. Un seminario sul luogo della negatività (1982 e 2008); La comunità che viene (1990), Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita (1998 e 2005) e Studiolo (2019).

“IL LIBRO DELLA NEVE” DI FRANCO BREVINI

Chi non ricorda lo stupore e l’incanto dei risvegli dell’infanzia, quando cadeva la neve? Ma anche da adulti continuiamo a rivivere quella magia, ogni volta che la bianca signora dell’inverno fa la sua comparsa. Di là dalla fiaba natalizia moderna, la neve si è trasformata nei secoli, così che il “crudo verno” degli antichi non è più associato al freddo, alla paura e alla fame, ma, oggi, al tempo libero e allo sport. La neve ha prestato il suo candore alle donne cantate dai poeti; ha sollecitato la sensibilità degli artisti, da Brueghel, con i suoi pattinatori sui canali gelati, ai vellutati paesaggi degli impressionisti, alle raffinate stampe giapponesi; al cinema è un infallibile dispositivo classico del thriller; in molti romanzi e racconti una presenza chiave: si pensi a Zanna Bianca, alla Montagna magica, alla Regina delle nevi, o a Frankenstein, in cui una abnorme creatura si aggira sul pack polare e sui ghiacciai del Monte Bianco. La ritroviamo nella ricerca scientifica, nelle imprese degli esploratori polari, nelle guerre (da Annibale a Napoleone, fino alla nostra “guerra bianca”), nella diffusione degli sci, nella nascita dell’alpinismo e del turismo di montagna. Una storia emozionante, che si nutre della stessa esperienza dell’autore e che comincia con un microscopico fiocco esagonale per giungere alle sfide metafisiche che le vette più famose lanciano agli scalatori degli 8.000 himalayani. A raccontarla Franco Brevini in “Il libro della neve. Avventure, storie, immaginario”, saggio pubblicato dal Mulino. L’autore insegna insegna Letteratura italiana all’Università di Bergamo e collabora con il Corriere della Sera. Ha pubblicato una trentina di volumi, fra cui “Le parole perdute” (Einaudi, 1990); “La poesia in dialetto. Storia e testi dalle origini al Novecento”, 3 voll. Mondadori, 1999); “La letteratura degli italiani” (Feltrinelli, 2011); “L’invenzione della natura selvaggia. Storia di un’idea dal XVIII secolo ad oggi” (Bollati Boringhieri, 2013); “Così vicini, così lontani. Il sentimento dell’altro, fra viaggi, social, tecnologie e migrazioni” (Baldini&Castoldi, 2017); “Alfabeto verticale” e “I simboli della montagna” (Il Mulino, 2015 e 2018). Alla ricerca scientifica affianca un’intensa attività di alpinista e viaggiatore.

(© 9Colonne - citare la fonte)