(4 novembre 2020) Istituzionalmente vincerà chi, al termine del conteggio di tutti i voti, avrà raggiunto il quorum di 270 grandi elettori. Politicamente però un verdetto è già incontestabile: negli Stati Uniti furoreggia una nuova destra, eversiva, radicale e antistatalista, che non pare sensibile a rovesci indotti da errori o da gaffe del suo leader. Troppo coriacea nel difendere posizioni e ambire ad accumularne di più solide. Questa destra viene da lontano, e probabilmente non si fermerà nemmeno con l’eventuale estromissione di Donald Trump dalla Casa Bianca.
15 anni fa, nel pieno dell’era Bush, due giornalisti inglesi - John Micklethwait e Adrian Wooldridge- dell’Economist - finalizzarono un lungo soggiorno nell’America del dopo 11 settembre, per capire , e spiegare, come si fosse formata quella coalizione che sbaragliò i democratici del dopo Clinton. Nacque così il saggio La Destra Giusta, in Italia edito da Mondadori.
Siamo nel pieno gorgo irakeno, con un presidente incerto e non smagliante, ma che riesce a coagulare un primo spezzone di una vasta alleanza popolare, con la pancia evangelica del paese e la corn bellts, la cintura agricola degli stati del sud. Era ancora una destra cresciuta nel mito di Reagan, di cui Bush padre fu vice presidente, conservatrice ma mitigata da venature sociali. I Teo Cons, quella leva di intellettuali ex progressisti, che fornirono le armi e i linguaggi culturali, per irrobustire la reazione conservatrice alla dittatura liberal, come la chiamavano loro, inventarono il capitalismo compassionevole, in cui ognuno sta al proprio posto, ma chi sta sopra concede aiuti a chi sta sotto. I due inviati dell’Economist batterono palmo a palmo quella provincia americana che sembrava la matrice , la fabbrica di quel capitalismo compassionevoli. Dai loro viaggi ricavarono però anche la sensazione che fosse in incubazione una mutazione genetica di quell’area politica che votava Bush.
Nel loro libro parlarono di contrapposizione geometrica fra un’America verticale, arroccata nei grattacieli delle grandi città, che era rappresentata dalla sinistra liberal, e un’America orizzontale, delle lunghe e piatte province che cominciavano a congiungere pianure agricole con i laghi industriali nel nome della frustrazione per una globalizzazione che le penalizzava uniformemente.
Ad unire e rappresentare questo malcontento orizzontale furono i Tea Party, movimento granulare dei territori agroindustriali in cui si diffondeva il rancore per chi guadagnava con le speculazioni finanziarie mentre l’economia reale mieteva disoccupati e emarginazione. I Tea Party spinsero questa rabbia contro Washington e le elite dei governi, chiunque essi fossero, identificando la piovra succhia soldi con lo stato centrale che attraverso il fisco infieriva sulle vittime dei giochi dei grandi gruppi tecnologici e commerciali.
Si infittiva così quella trama eversiva, anti statalista e rancorosamente contrapposta ad ogni elites pubblica che scavò sotto i piedi del fragile partito repubblicano creando quella voragine di rappresentanza sociale in cui si calò un miliardario avventuroso, guidato da un’oscura compagnia di mestatori, corruttori e manipolatori che intravvidero l’opportunità di un take over sull’intero Old Party. Trump salda l’intuizione di raccogliere un’anima popolare , rimasta orfana da ogni dinamica e rappresentazione sindacale, con una strategia di corruzione pulviscolare, in grado, grazie a Cambridge Analytica , di parlare con metodo e linguaggi coerenti con la mobilitazione reazionaria che era stata messa in moto dai Tea Party.
La convergenza fra questi due fenomeni - uso clandestino e destabilizzante della rete per premere individualmente su ognuno degli elettori delle aree disgregate, con l’isolamento dalla politica di ampie zone industriali del paese, capeggiate da Detroit, penalizzate dalle delocalizzazione e la smaterializzazione produttiva - ha generato una maggioranza che potremmo definire dei secondi e dei penultimi, contrapposta al fronte democratico composto , prevalentemente dai primi e dagli ultimi.
Due combinazioni d’interessi che estendono e arricchiscono la prima geografia descritta da Micklethwait e da Wooldridge con il loro libro sulla frontiera che divideva l’ America orizzontale da quella verticale. La maggioranza con cui Trump sorprende e sbaraglia 4 anni fa Hillary Clinton arriva fino ai quartieri residenziali delle grandi città, diciamo fino alla soglia delle penthouse dei grattacieli di New York e Boston, e assorbe l’intero ceto medio subalterno espulso dalle aree dotate di buone scuole e assistite da efficienti assicurazioni sanitarie, integra anche le robuste tribù diseredate, che hanno trovato comunque una collocazione ai penultimi scalini della gerarchia sociale e oggi si vedono insidiati dai nuovi immigrati che premono e chiedono a loro di dividere quanto hanno accumulato.
Tanto più se, sul versante liberal, la mediazione fra le diverse anime del partito democratico produce una rappresentanza dei ceti intellettuali e urbani più globalisti e capaci di navigare nell’economia reticolare insieme all’attenzione civile per i diritti delle minoranze più escluse come i neri disoccupati e i latinos rifugiati. Le due maggioranze si fronteggiano con armamentari culturali e comunicativi del tutto paralleli ma non convergenti.
Sono due mondi alternativi, che abitano due paesi sovrapposti ma non integrati. La miccia la trova e l’innesta la destra che riesce ad utilizzare le dinamiche semantiche della rete per amplificare e diffondere, neuralmente, i messaggi veicolabili da Twitter e facebook: notizie incontrollate, allarmi martellanti, denunce inverosimili. Nel suo libro Il Mercato del Consenso, Cristopher Wylie, il talentuoso punk inglese che ha sviluppato il sistema algoritmico di Cambridge Analytica, spiega bene come il gruppo di destabilizzatori conservatori guidati da Bannon e dal suo finanziatore Robert Mercer, finalizzano la capacità della rete di profilare milioni di individui per poi parlargli nella loro intima lingua, sconvolgendo le dinamiche comunicative e sociali della campagna presidenziale. Ma in politica la mossa di uno dei contendenti è sempre la conseguenza di un errore dell'altro. E’ evidente che la maggioranza che raccoglie Trump, e che oggi mostra di reggere sotto i colpi della mobilitazione liberal, segnando, comunque vada un presidio non rimuovibile di quel campo della politica statunitense, è l’effetto di un ritirarsi dei democratici, di tutte le estrazioni ed ispirazioni, dal recinto sociale più compromesso, quello della ricollocazione di risorse umane e finanziarie, scomposte dalla virtualizzazione dell’economia.
La sinistra americana non contende alla Silicon Valley il governo psico tecnologico dei comportamenti sociali, e lascia al capitale finanziario campo libero per scorrazzare nel mondo creando voragini nei tessuti sociali. La destra invece raccoglie i cocci e finalizza il suo messaggio sovranista e nazionalista alla protezione di coloro che si sentono traditi dai grandi giochi, spostando , accortamente , il bersaglio del popolo del rancore dai prioritari dei beni materiali, siano essi aziende o patrimoni, a coloro che invece arrivano per ultimi sulla scena: il vostro nemico, dice Trump non è il padrone dinanzi a voi, ma il concorrente, sia pure miserabile, che sbarca alle vostre spalle. Il voto della Florida dimostra, plasticamente, il successo di quest’illusionismo politico.
Quasi metà della comunità dei latinos, contro cui Trump ha metodicamente combattuto nei suoi anni di presidenza ha votato per il proprio carnefice, pur di trovare una protezione contro coloro che, arrivando esattamente lungo lo stesso percorso che ha portato loro in America, potrebbero minacciarli nel loro per quanto minimo livello di assestamento.
Né vale, in questo scenario, la consolazione che una certa sinistra della costa est americana alimenta, sostenendo che se fosse stato concesso a Sanders, o alla Warren, di fronteggiare il presidente uscente, quest’area di semi emarginati avrebbe avuto interlocuzione diversa del partito repubblicano. Agli occhi di quest’area l’emancipazione sociale di cui parla Sanders, è ancora un lusso di ricchi intellettuali degli stati del nord est americano, dove si disquisisce ancora della nuova frontiera kennedyana mentre bisogna combattere con il Dumping della Cina e chiudere le frontiere con il Messico.
Solo una eventuale strategia che apra un reale conflitto con il punto più avanzato dello spettro sociale, oggi le concentrazione di capitale tecnologico e delle piattaforme che accumulano potere sensitivo, controllando i big data e algoritmi di intelligenza artificiale, potrebbe aprire un varco nel muso di autismo che ancora isola la sinistra democratica. Un conflitto che porterebbe le grandi città in campo contro Google ed Amazon non per punire ma per condividere risorse finanziarie e tecnologiche per la vita dei cittadini, costruendo sistemi sociali più vivibili e trasparenti. Da qui si arriverebbe a rendere l’attenzione per gli ultimi un metodo scalare che accumuni e non contrapponga gli emarginati dalla grande festa della modernità fra di loro. Un percorso lungo, non riassumibile in un personaggio o un candidato, ma certo non eludibile ne sostituibile con la maledizione per un presidente senza vergogna.