“Gli algoritmi vanno abitati, non negati” se si vuole avere qualche speranza di salvare il giornalismo professionale e certificato. Attorno a questa frase, pronunciata davanti a un caffè dall’amico e collega Alberto Sinigaglia (per molti anni presidente dell’Ordine dei Giornalisti del Piemonte), si sviluppa un nodo centrale che investe politica, economia, istituzioni di categoria e regolatori. Il dilagare dell’intelligenza artificiale ha reso le informazioni merce e la merce va contrastata con altra merce, possibilmente confrontabile sulla stessa “arena”. L’algoritmo è come un ragno, parte dal centro e crea spirali di tela sempre più ampie per avere le maggiori possibilità di intercettare “prede”. Il centro è la tendenza social, creata ad arte o rinvenuta nel mare del web, da lì si parte fin a piegare i media tradizionali ad “inseguire”, a scrivere migliaia di pagine su eventi già consumati digeriti, trasfigurati.
Ma invertiamo i fattori. Prendiamo la notizia del premio Nobel per l’economia. In questo caso l’algoritmo viene “bucato”, bruciato sul tempo dalla diffusione planetaria di mezzi di informazione professionali, è lui ad inseguire e, fatalmente, moltiplicare l’eco. Il punto è amplificare il banale esempio del Nobel a livello industriale.
E qui viene il primo tema, professionale. Giornalisti ed editori dovrebbero usare massicciamente l’intelligenza artificiale, l’analisi semantica, il machine learning e tutti gli strumenti possibili per aprire la guerra della qualità. Non intendo solo usare l’esistente, come molti fanno, ma mettere al lavoro start up, ingegneri informatici, editor, esperti di semiotica, finanziati e verificati eticamente. Un grande laboratorio di “controinformazione”, per usare un paradosso, che potrebbe essere del tutto coerente con il Recovery Fund. Oggi i migliori hub tecnologici del Paese sono basati sullo sviluppo di business, inevitabilmente, perché non lo sono sull’informazione? L’informazione traina, come certificato da innumerevoli studi, ogni tipo di prodotto, viene usata e smembrata, smembrando la categoria dei giornalisti e le sue istituzioni. Velleitario? Non credo. La facezia che vede Google, Facebook, Instagram e Twitter come fornitori di infrastrutture democratiche alle masse finalmente protagoniste, risulta non solo smentita ogni giorno da manipolazioni politiche, interessi economici enormi e operazioni inconfessabili e anonime, ma crolla miserevolmente di fronte alla dipendenza e al disagio giovanile, studiati ormai a livello di patologia medica.
È evidente che ogni fenomeno globale contiene eccezioni ed esempi virtuosi, ma ciò che resta depositato sul fondo è la distruzione del giornalismo professionale, delle regole che governano il diritto/dovere di essere informati, fino ad arrivare ad un torbido fiume inarrestabile nel quale si tuffa l’opportunista del momento, il circuito opaco del potere, il gioco apparentemente trasparente del confronto ed equilibrio tra poteri.
Abitare gli algoritmi significa anche verificare i flussi e richiedere le giuste remunerazioni ai big data che usano i contenuti. La regolamentazione europea è un passo in avanti, ma ora servono industria e istituzioni.
La crisi dell’Inpgi, la consunzione del contratto di lavoro, l’antica legge ordinistica si manifestano nel 2005 quando comincia una crisi irreversibile delle testate “classiche” che colleziona in pochi mesi una quantità di prepensionamenti superiore a quella registrata nei 20 anni precedenti. E’ stata notata, denunciata, certificata nei verbali, ma nessun soggetto pubblico ha voluto vederla né arginarla. Io, noi, potevamo fare di più? Probabilmente sì, rallentare ulteriormente la decomposizione, non senza drammatici prezzi sociali, ma non certo giocare la partita in prima fila.
Il Governo e il Parlamento vogliono agire, Costituzione alla mano, con regole, limiti, sanzioni, investimenti, alleanze? Se così non fosse, inutile prendersi a ceffoni alla ricerca dei colpevoli. I colpevoli sono dall’altra parte dell’oceano e stanno già pensando ai prossimi 10 anni: più trasparenza, più etica, più controllo delle fake news. Ma è solo una partita di giro per continuare a usare gratis ogni tipo di contenuto.
(l’autore è ex presidente Inpgi-Adepp)