di Paolo Pagliaro
Il pronunciamento dell’Europa sulla necessità del salario minimo ci interessa da vicino non solo perché l’Italia è uno dei sei paesi privi di questa elementare misura di protezione sociale.
Ma anche perché negli ultimi trent’anni i salari in Lettonia sono cresciuti in media del 276%, un record. In Polonia sono aumentati del 96%, in Germania del 33%, in Francia del 31%, in Spagna del 6%. L’unico paese europeo in cui i salari – a parità di potere d’acquisto – oggi sono inferiori a quelli del 1990 è per l’appunto l’Italia, che fa segnare un meno 2,9%.
Giuseppe Bianchi, che con Pietro Merli Brandini e Nicola Cacace ha fondato l’Istituto di studi sulle relazioni industriali, da mezzo secolo analizza con regolarità le trasformazioni del lavoro e oggi non ha dubbi: occorre valorizzare e pagare di più il lavoro manuale. Vanno rivisti i salari nell’agricoltura, nell’edilizia e nel terziario più povero, ora per lo più svolti da immigrati. Ma vanno pagati meglio anche i lavori di professionalità intermedia che, dopo la pandemia, dovranno supportare l’espansione dei servizi pubblici di prossimità, e dunque infermieri, addetti ai trasporti, insegnanti
Chi contesta il salario minimo dice che gli stipendi possono aumentare solo se aumenta la produttività. Ma in passato non è stato così, perché la produttività oraria del lavoro misurata dall’Istat è cresciuta, in trent’anni, del 12,7% mentre la retribuzione reale media, come abbiamo visto, è diminuita. Se ne sono giovate le esportazioni, ma sono peggiorate le condizioni di vita di milioni di persone.
(© 9Colonne - citare la fonte)