I numeri non mentono e se questi ci dicono che in Italia è in costante aumento la disoccupazione (e di conseguenza la povertà) non compensata o mal compensata da lavori precari per durata e retribuzione non v’è motivo di dubitarne. E infatti tutti, da destra a sinistra, si guardano bene dal farlo. Ciò nonostante non sarebbe male porsi qualche domanda che introduce al dubbio e aiuta a leggere il fenomeno con realismo e con qualche possibilità in più di avvicinarsi se non alla soluzione quanto meno a una percezione più corretta. Nel “Juan de Mairena”, Antonio Machado scrive: “La verità è la verità che la dica Agamennone o il guardiano dei porci. Agamennone: sono d’accordo. Il guardiano dei porci non mi convince”.
Fuori dal richiamo al grande poeta spagnolo e più vicini ai fatti di casa nostra, che cosa non convince nel panorama della disoccupazione italiana? E’ il non detto ovvero quella descrizione che, al netto della pur rilevante quota di perdita di lavoro derivante dalle vecchie e nuove crisi aziendali conclamate e mai risolte, non entra nel vivo del problema restando imprigionata in una reticenza che da sinistra a destra trova solo risposte marginali e di comodo, senza mai andare alla radice. La verità è che bisognerebbe trovare il coraggio e l’onestà intellettuale di ammettere che all’origine è la qualità della manodopera che fa da rallentatore.
C’è un deficit di antica data che ogni tanto affiora nelle discussioni ma poi viene sommerso dalla reiterata litania dei giudizi sulla fantasia e sull’inventiva degli italiani. Con tanto di esempi su startup e novità che comproverebbero questo stato di cose. E nessuno che nelle interviste di giornali e talkshow ponga all’intervistato la domanda cruciale: lei che cosa sa fare? Lei che mestiere possiede? Se lo si facesse si scoprirebbe che nella maggior parte dei casi ci si trova di fronte a persone prive di una preparazione realmente rispondente alla domanda del mercato. Mancano migliaia di elettricisti, idraulici, addetti ai servizi sociali, lavoratori agricoli. Un’analisi storica meno superficiale consentirebbe con ogni probabilità di uscire dall’equivoco prendendo atto che il nostro paese è rimasto attardato rispetto al resto dell’Europa in fatto di formazione del lavoro.
Questo limite era inesistente o comunque tollerabile fino alla seconda metà del secolo scorso. Quando negli anni sessanta arrivavano a Torino migliaia di immigrati dal Mezzogiorno in transito spesso forzato dall’agricoltura all’industria, le catene di montaggio della Fiat offrivano un lavoro che spesso richiamava alla memoria Charlot di “Tempi moderni”. L’ingranaggio tayloristico della fabbrica non richiedeva molto di più. In seguito si poteva progredire dotandosi di una qualche specializzazione, ma per la prima occupazione potevano bastare le braccia.
Poi è cambiato tutto e da quando è scomparsa la catena di montaggio quella fame di braccia avrebbe dovuto trovare progressivamente un’alternativa orientata verso la formazione di una nuova classe lavorativa e non si può certo dire che ciò sia accaduto. Ma questo nessuno o pochi lo ammettono preferendo le lamentazioni alimentate da una bugia.