Pochi giorni dopo la cattura a Palermo del capo mafioso Matteo Messina Denaro, ricercato da una trentina di anni, il Vescovo emerito di Mazara del Vallo, celebrando a Campobello la Messa nella chiesa che si trova a poche decine di metri dall’ultimo covo del capomafia, ha usato parole durissime ricordando che “..occorre combattere l’omertà, la sfiducia attraverso le testimonianze vere” e che “non ci può essere troppa pietà per un mafioso che ha ammazzato tanto, persino un bambino”.
Il parroco di Campobello di Mazara, paese dove ha vissuto indisturbato il mafioso, difendeva la sua comunità “gente che pensa solo a lavorare” pur ammettendo che “dopo quello che è successo occorre aprire una riflessione su questi temi”. A Castelvetrano, dove è nato Messina Denaro, una cittadina del Trapanese di circa trentamila abitanti, a manifestare in piazza contro il boss ormai in carcere, c’erano appena una trentina di persone. Se la lotta alle mafie rimane chiusa nel perimetro della repressione poliziesca e giudiziaria non si produrrà mai quel cambiamento delle coscienze indispensabile a fare terra bruciata del sistema mafioso.
E su questo punto la Chiesa Cattolica può fare molto nelle migliaia di parrocchie sparse in tutto il Paese ricordando, per esempio, la scomunica ai mafiosi pronunciata da Papa Francesco nel giugno del 2014 a Cassano allo Jonio e, prima ancora, nel 1982, la marcia anticamorra a Ottaviano promossa dal vescovo di Acerra Antonio Riboldi. Nel 1975, in Calabria, il la conferenza episcopale definiva “ la mafia disonorante piaga della società” e il 9 maggio 1993, ad Agrigento, Giovanni Paolo II ad un anno dalle stragi di Capaci e via d’Amelio, si rivolgeva ai mafiosi perché “si convertissero”.
E’ stata probabilmente questa posizione finalmente netta della Chiesa contro le mafie a indurre i mafiosi ad inviare messaggi chiari e sangui9nosi ( l’assassinio nel 1993 di don Pino Puglisi, gli attentati alle chiese romane di San Giorgio al Velabro e di San Giovanni in Laterano, l’omicidio di don Peppino Diana). Non si può, tuttavia, dimenticare che le mafie si sono appropriate dei riti e dei simboli della fede cristiana per creare un proprio universo di significati e di valori, riconoscibile e rassicurante. Lo sottolineava, cinque anni fa, nel febbraio 2018, la relazione conclusiva di fine Legislatura, approvata all’unanimità, della Commissione Parlamentare antimafia presieduta da Rosy Bindi. Una relazione corposa di oltre 500 pagine che, a mio parere, è il lavoro meglio fatto di tutte le precedenti Commissioni. Così, ricordando Giovanni Falcone che “sosteneva che entrare a far parte della mafia equivale a convertirsi a una religione”, si sottolineava come in vaste zone del Sud d’Italia il legame con la religione (il mafioso Michele Greco si faceva chiamare Papa e nel covo di Provenzano furono trovati decine di santini, libri di preghiere, una bibbia), ha contribuito non poco alla costruzione del consenso delle mafie. Senza contare che battesimi, cresime, matrimoni e funerali sono sempre stati considerati elementi costituivi della cultura mafiosa, così come le offerte di denaro in favore di confraternite e feste patronali.
L’opera coraggiosa e tenace di “liberazione” delle coscienze e dei territori è andata avanti negli anni con don Luigi Ciotti e con Libera ( nata nel marzo del 1995) da lui fortemente voluta e divenuta l’anima dell’antimafia civile e culturale del nostro paese. C’è un gran bisogno, come ricordava la Commissione Parlamentare antimafia “..di una Chiesa che non permetta forme distorte o deviate della religiosità popolare ma che usi il linguaggio della verità per smascherare quanti continuano a giustificare la presenza delle mafie con l’assenza dello Stato, avallando così la convinzione distorta che le mafie siano la conseguenza e non la causa dell’arretratezza del Mezzogiorno”.