di Paolo Pagliaro
A differenza dell’italiano, il russo non ha articoli deteminativi e indeterminativi. Per capire di cosa si sta parlando è decisivo il contesto. In passato, l’uso della parola «guerra» lasciava intendere immediatamente e con certezza la Seconda guerra mondiale. Da un anno non è più così. Quando in Russia si sente la parola «guerra» ora si pensa all’Ucraina. Succede anche ai bambini. La scrittrice Julia Yàkovleva ne ha incontrati molti per sapere cosa pensano e pubblica il resoconto delle sue conversazioni in un e-book intitolato Orrore, schifo, guerra pubblicato dalla rivista del Mulino.
Sui bambini russi non cadono le bombe. Le loro case non sono distrutte. Non sono stati feriti dai frammenti delle granate. Eppure – attraverso gli smartphone e le conversazioni degli adulti - stanno vivendo anch’essi un trauma, quel «trauma di testimonianza» che colpisce chi vede e sa ma non può in alcun modo intervenire. La scrittrice si è messa a cercare di proposito bambini favorevoli alla guerra e la sua ricerca continua. Ma per ora non ne ha trovati.
In Russia non c’è nessuno in grado di organizzare il dissenso e dargli uno sbocco politico. Chi c’è, sta in prigione. La protesta ha assunto dunque una nuova forma attraverso piccoli simboli come adesivi, graffiti, volantini, figurine, cartellini dei prezzi, nastri, attraverso i quali viene espressa la propria contrarietà alla guerra. Vengono disseminati di fretta da mani invisibili., spesso di ragazzini.
Per descrivere lo stato d’animo di molti russi, lo storico Giovanni Savino su Valigia Blu cita il ritornello di una canzone dei Kino, gruppo leggendario del rock sovietico: “il treno mi porta dove non voglio andare”. Nessuno però al momento appare in grado di fermare la guerra, e il treno continua a correre spedito verso nuove ,tragedie.