Si presentava puntuale all’assemblea della Fiat e chiedeva la parola come azionista. Una volta alla tribuna, srotolava un grande foglio zeppo di disegni e numeri per la costruzione di un ponte sullo Stretto di Messina che a suo giudizio non poteva non interessare la Fiat Engineering e che lui perorava con passione. Si chiamava Nino Turati e tra gli Ottanta e Novanta del Novecento anno dopo anno non mancò mai di riproporre il suo “sogno del ponte”. Gianni Agnelli, allora presidente della Fiat, lo lasciava parlare e con un gesto della mano invitava gli azionisti a fare altrettanto, non si è mai capito se per curiosità o per rispetto verso quel signore già avanti negli anni che da Torino vagheggiava di collegare la Sicilia al continente. E solo quando la sala cominciava a dare segni di impazienza, con un sorriso appena accennato, lo invitava a concludere. Noi giornalisti che seguivamo le assemblee conoscevamo a memoria quella pantomima che si ripeteva ogni anno e che consideravamo una stravaganza. Fino a quando “l’uomo dello Stretto”, come lo chiamavamo, forse per ragioni anagrafiche, non si vide più.
Piuttosto fuori contesto in quella sede il fascino della sfida a Scilla e Cariddi tornò a occupare solo i discorsi della politica come era successo in passato e sempre con il suo seguito di favorevoli e contrari.
Ci avevano provato in tanti dai Romani a Carlo Magno, da Ferdinando II di Borbone a Zanardelli che nel 1876 voleva “la Sicilia unita al continente”, dal progetto degli anni Quaranta a quello approvato nell’85 dal governo Craxi poi finito nelle macerie di Tangentopoli. Ed è da qui in avanti che entra in scena Berlusconi che ne fa il suo cavallo di battaglia riproponendo il ponte a più riprese fino all’approvazione del decreto da parte del consiglio dei ministri del 16 marzo scorso. Con commenti di giubilo suoi (“Questa volta non ci potranno fermare”) e di Salvini che, da titolare del Mit, lo rivendica tra i suoi obiettivi come “la più grande opera green al mondo con la quale l’Italia potrà dare lezione di arte ingegneristica a tutti”. Più cauta e meno trionfalista Giorgia Meloni che deve aver pensato a come rispettare la data di fine luglio 2024 per la presentazione del piano esecutivo e soprattutto a come trovare i 10 miliardi di euro stimati per la realizzazione dell’opera.
Preoccupazioni che non sembrano impensierire i suoi due alleati i quali con ogni evidenza ritengono in cuor loro che tutto stia nel rimettere in piedi il vecchio carrozzone di stato di una società che ha ingoiato 300 milioni senza che sia stato piazzato un mattone. E con la realistica previsione che a questa storia che dura già da 42 anni si possa aggiungere un altro capitolo dai contenuti non dissimili da quelli del passato.
Del resto basta dare uno sguardo al piano per capire che si tratta del vecchio progetto del consorzio Eurolink oggi Webuil, società romana guidata da Pietro Salini: naturalmente dopo aver saldato i debiti per 700 milioni che questa società rivendica per il progetto presentato nel 2005 e poi cancellato dal governo Monti. E’ evidente che per Salvini l’aspetto finanziario deve costituire un questione secondaria, così come le regole che vorrebbero per una tale opera quanto meno una gara (non c’è traccia nel decreto) di cui si dovrebbe invece tenere conto soprattutto se si vorrà avere un contributo da parte dell’Unione Europea. E del tutto trascurabile deve sembrargli la questione delle priorità essendo lui e Berlusconi interessati alla cattedrale sullo stretto senza minimamente porsi il problema dello stato delle infrastrutture e di tutti gli altri bisogni urgenti di Sicilia e Calabria. “Quisquilie” diceva il grande Totò. Quello che conta per il duo lombardo innamorato del Mezzogiorno è l’annuncio, anche per uscire dall’ombra di Giorgia. Il resto si vedrà. E senza che ci sia neppure un’assemblea Fiat e un azionista Turati a riproporre da Torino il sogno del Ponte