C’è un mondo che si autogratifica della “bellezza” di una P.A. che si rinnova, che vanta i progressi delle tecnologie digitali che risolvono “online” i bisogni dei cittadini. I giuristi sottolineano i vantaggi di una semplificazione delle procedure per accedere ai servizi richiesti. Gli economisti evidenziano l’uso più efficiente delle risorse che potenzia l’offerta pubblica delle prestazioni. Questa realtà virtuale come si rapporta con la realtà effettiva?
Un caso personale, anzi coniugale, che non risolve di certo l’interrogativo, ma solleva qualche domanda. L’occasione è il rinnovo della carta di identità per me e per mia moglie a Roma. Una normale pratica burocratica che in passato veniva sbrigata “a vista” negli uffici comunali preposti al servizio.
La novità è la “procedura online” per la prenotazione, il contatto con una opaca e imperscrutabile piattaforma che prenderà in esame quella che di fatto somiglia, più che altro, ad una supplica.
La presa in considerazione non è benevola. Occorre attendere da quattro a sei mesi. Non risultando avvenuta la decapitazione degli organici comunali o la diffusione di un virus debilitante, questa lista di attesa appare poco giustificata (non si tratta di un ricovero ospedaliero che ha limiti oggettivi di capienza).
La spiegazione è fornita all’atto del rinnovo dei due documenti, quando finalmente si realizza, nella sede del Municipio I, ex XVII (Circonvallazione Trionfale). Una sede ampia, con dieci postazioni di lavoro, tutte deserte. L’accoglienza è non solo gentile: direi festosa. Due dipendenti si attivano per gestire la procedura prevista: certificazione delle nostre identità garantita dai testimoni (da 50 anni siamo noti al Comune per le tasse pagate), registrazione elettronica dei dati, suggellata dalla firma di una documentazione cartacea e dalla richiesta delle “impronte digitali” (?). Durata della procedura: dai 15 ai 20 minuti. Disponibilità dei documenti rinnovati, a distanza di una settimana e ritiro – in presenza o a mezzo delega – perché “delle Poste non ci si può fidare”.
Un caso, ma non marginale, perché riguarda la città più popolosa d’Italia, che – oltre a essere la capitale del Paese – vive un momento particolarmente delicato: innestare l’innovazione digitale in una struttura burocratica appesantita da norme e da rigidità corporative.
È capitato anche nelle aziende più progredite del settore industriale che gli investimenti tecnologici ritardassero i benefici attesi per la complessità degli adattamenti richiesti nella loro organizzazione interna. L’investimento tecnologico, e soprattutto quello digitale, ha una carica innovativa che richiede una progettualità di sistema che investe le strutture organizzative, la sequenza programmata delle diverse fasi operative, una gestione dinamica delle politiche del personale.
Tuttavia, non va sottovalutato il disagio dei cittadini che subiscono il prolungamento dei tempi di attesa e che scoprono, al momento del contatto burocratico, le postazioni di lavoro deserte. La questione non è l’età o il livello di istruzione dei cittadini, spesso evocata. I cittadini sono favorevoli all’innovazione tecnologica per migliorare i loro rapporti con le strutture burocratiche. Contano però i risultati, che devono ricreare una più accettabile contabilità sociale tra le tasse pagate e i servizi ottenuti. Il disagio dei residenti romani nasce dallo squilibrio tra le tasse pagate al livello di una società progredita e le prestazioni pubbliche ottenute, proprie di una società arretrata.
I laudatori della “grande bellezza” di una P.A. che si riforma devono prenderne atto. In caso contrario aumenterà la sfiducia dei cittadini e la loro disaffezione nei confronti delle istituzioni rappresentative, come ogni tornata elettorale registra.