Parto da lontano ma la rievocazione aiuta a inquadrare il triste spettacolo che i ministri di Giorgia Meloni, dalla medesima incoraggiati, vanno mettendo in scena un giorno dopo l’altro con una continuità che, con buona pace dei buonisti convertiti, dovrebbe destare un qualche allarme. Elezioni politiche primavera 1968. Pietro Nenni arrivò a Torino, circoscrizione nella quale era capolista, per il comizio di chiusura della campagna elettorale del Partito socialista unificato. Doveva parlare in piazza San Carlo in tempi in cui i leader politici non avevano paura di affrontare le folle. Ma le piazze in quegli anni erano teatro di una contestazione giovanile nella quale s’imponevano spesso gruppi estremisti. Furono proprio questi, i “cinesi”, come venivano definiti, a fare irruzione durante il comizio a mettere in piedi la contromanifestazione di rito con cartelli che inneggiavano a Mao e Ho Chi Minh e urlare insulti contro Nenni “servo degli americani, rosso antico, traditore”.
Protetto da un gruppo di compagni socialisti che gli stavano attorno sul palco e dalle forze dell’ordine che cercavano di bloccare i manifestanti, il vecchio combattente di Guadalajara, continuò a parlare e parlare concludendo il suo comizio. Poi la scorta lo accompagnò fino alla Federazione del partito in corso Palestro. Ma lui, com’era sua abitudine, si arrampicò per le scale fino al secondo piano dove c’era l’ufficio di corrispondenza dell’Avanti! di cui ero allora responsabile. Me lo vidi arrivare nella stanza col suo fascio di giornali in mano mentre picchiando su una monumentale Olivetti stavo per terminare il resoconto sui fatti di piazza San Carlo da trasmettere poi via telefono alla sede di Milano del giornale.
Mi stava seduto di fronte con il suo testone solcato da antiche rughe affondato a un palmo dal foglio di giornale quando, non sentendo più il ticchettio della Olivetti alzò lo sguardo e mi chiese se avevo finito. “Sì, anzi no, è che c’è un problema” risposi impacciato. “Che problema?” chiese. Allora gli parlai dei fischi e degli slogan, accennando alla mia perplessità sulla necessità di darne conto. E lui con un sorriso nel quale mi parve di scorgere un velo di tristezza si avvicinò al tavolo e, come se dettasse, mi cavò dall’impaccio. “Scrivi, riferisci tutto quanto è avvenuto, quello che tutti i presenti hanno visto e sentito”. Poi si passò la mano sulla fronte e aggiunse “Fischio più fischio meno”.
Cinquantacinque anni più tardi la ministra per la famiglia e per le pari opportunità, Eugenia Roccella, non ha avuto la forza d’animo di fare altrettanto. Venuta su invito della Regione Piemonte al Salone di Torino per presentare un suo libro è stata accolta della contestazione degli attivisti dei movimenti “Extinction Rebellion” e “Non una di meno” che non hanno risparmiato neppure il direttore della kermesse torinese, lo scrittore Nicola Lagioia, chiamato dalla stessa Regione a mettere pace.
I fatti sono stati più o meno questi e non avrebbero meritato più di tanto. Se non fosse che Augusta Montaruli deputata della legione meloniana si è sentita in dovere di intervenire e ha colto l’occasione per ritagliarsi uno spazio di visibilità urlando in direzione di Lagioia: “Vergogna, vergogna, come fai a dire che è una manifestazione pacifica!”. Per poi aggiungere che Lagioia è pagato con soldi pubblici. Dimenticando, nella foga dello scontro di ricordare che appena tre mesi lei fa si era dimessa da sottosegretario dopo essere stata condannata in via definitiva per uso improprio dei fondi dei gruppi consiliari della Regione Piemonte nel periodo 2010-2014. Ma a quel punto la ministra Roccella era già via, lontana dalla bagarre alla quale, come si dice, non aveva opposto strenua resistenza. Preferendo rifugiarsi nel vittimismo, terreno ampiamente battuto dalla Meloni e dal suo team. Altro che “fischio più fischio meno”.