di Paolo Pagliaro
Dice il professor Vincenzo Visco che economisti come Stuart Mill e Luigi Einaudi ritenevano disdicevole il fatto che il nipote imbecille di un nonno intelligente continuasse a vivere di rendita senza lavorare. Per questo l’imposta di successione è il prelievo preferito dal pensiero liberale classico. Ma in Italia, come sappiamo, si è affermata una corrente di pensiero diversa e dunque da noi le imposte di successione sono tra le più basse del mondo. Sono quasi irrisorie.
Marta Fascina e Marcello Dell’Utri – per parlare di due degli ereditieri di cui da giorni si occupano con un pizzico di invidia i cronisti – verseranno allo Stato solo l’8 per cento di ciò che Berlusconi ha lasciato loro. Pagheranno ancor meno i cinque figli del cavaliere e il loro zio Paolo. In quanto eredi in linea diretta, l’aliquota per loro non supera il 4%.
Anche questo era sembrato troppo a Berlusconi, che l’imposta di successione l’aveva addirittura abolita, lasciando a Prodi il compito di ripristinarla. Sta di fatto che in Italia le imposte di successione valgono lo 0,19% delle entrate fiscali. Arrivano al 0,9% delle entrate federali negli Usa, a percentuali simili nel Regno Unito, al 2,8% in Corea del Sud, al 3,4% in Giappone e addirittura al 4,2% in Francia. In Germania la tassa di successione è proporzionata al patrimonio e per le eredità milionarie può andare dal 19 al 50% del valore. Nessuno si sogna di dire che così lo Stato mette le mani nelle tasche di qualcuno.