“In un contesto come quello dell’Italia, terza economia europea ed esponente del G7, le donne continuano a fare i conti con molteplici discriminazioni che ne riducono i diritti e le libertà. Problematica è anche la situazione delle persone della comunità LGBTQI+, delle persone razzializzate o delle persone con disabilità, costrette a vivere in una società nella quale le loro voci non sono ascoltate e i loro bisogni sono spesso disattesi”. Lo sottolinea in una nota Semia Fondo delle Donne, primo fondo femminista italiano.
“Mentre il terzo settore affronta queste istanze dalle proprie trincee, la teoria femminista contemporanea introduce un potente strumento per studiare, comprendere e trattare esperienze “multiple” di violazione dei diritti umani. Il concetto di “intersezionalità”, coniato dalla giurista e teorica femminista Kimberlé Crenshaw, parte proprio dalla premessa che le persone possono sperimentare multiple dimensioni di discriminazione in relazione ai multipli aspetti delle loro identità (genere, orientamento sessuale, razza, religione, disabilità, età, etc.). L’analisi di tali intersezioni permette un approccio più accurato al riconoscimento dei multipli divari sociali che sono all’origine delle discriminazioni e delle violazioni dei diritti umani delle comunità più marginalizzate” continua la nota.
“La dimensione dell’intersezionalità del femminismo italiano è ben riflessa nell’analisi condotta da Semia Fondo delle Donne: su 1047 organizzazioni mappate come parte del movimento, - si legge in una nota - un ampio segmento si vede oggi impegnato nella promozione dei diritti LGBTQI+ (15%) come missione principale, mentre un sondaggio qualitativo rivela che il 53% delle organizzazioni include la tematica come direttrice intersezionale. Le organizzazioni che si occupano di contrasto al razzismo e diritti delle minoranze migranti in ottica femminista sono il 5% del totale ma salgono al 42% quelle che, nella loro pratica quotidiana, approcciano le proprie missioni con attenzione all’intersezionalità etnica. Purtroppo, meno numerose sono, in Italia, le organizzazioni femministe che si occupano dei temi della disabilità. Il report rivela, dunque, che il movimento italiano si è effettivamente dotato di strumenti di analisi aggiornati e di obiettivi chiari e consolidati sul piano dei diritti. Tuttavia, alcuni dati preoccupanti emergono sulla sua effettiva capacità di conseguire un impatto strutturale e sostenibile.
Sebbene la ricerca condotta non mirasse a valutazioni sull’efficienza delle singole organizzazioni, dai dati aggregati emerge che, nel complesso, quasi il 70% delle organizzazioni mappate sono di piccola dimensione con meno di 15 persone impegnate nelle attività, in capacità perlopiù volontaria. La grande maggioranza sopravvive di autofinanziamento; solo il 38% ha ricevuto fondi pubblici e meno del 15% ha stabilito relazioni con fondazioni italiane”.
“Il sondaggio – denuncia Semia - ci restituisce un’immagine chiara delle difficoltà che impediscono al movimento un’azione più incisiva: il 61,41% delle organizzazioni lamenta la mancanza di fondi, mentre il 44,56% denuncia carenze di tipo strutturale e organizzativo, mancanza di strumenti di sviluppo strategico, di pianificazione e di sostenibilità, così come l’impossibilità di assumere risorse umane professionali per la gestione di aree strategiche come la raccolta fondi, la progettazione e la comunicazione. Questa condizione di diffusa insufficienza di mezzi - probabilmente accentuata dalla pandemia - mette a dura prova la capacità delle organizzazioni di sopravvivere e operare, aprendo la prospettiva di un progressivo indebolimento del loro ruolo sociale.
Ma crescita e rafforzamento del movimento sono anche fortemente limitati dai meccanismi della filantropia stessa. Da una parte, i bandi pubblici, italiani ed esteri, focalizzati sul finanziamento dei “progetti” con una filosofia di riduzione all’osso dei costi di struttura - erroneamente considerati come un indicatore di efficienza gestionale dei beneficiari - impongono meccanismi di selezione e oneri di rendicontazione spesso insostenibili per piccole organizzazioni. Dall’altra, la filantropia privata che, pur potendo investire sulle necessità di crescita e sviluppo dei “soggetti” del settore per aumentarne la resilienza e la sostenibilità, rimane spesso lontana geograficamente e tematicamente dalle realtà delle organizzazioni del territorio. Questa lontananza determina comprensibili fenomeni di scarsa “fiducia” nella congruità del loro operato e, dunque, una tendenza a privilegiare le poche organizzazioni più solide e strutturate.
In un modello che ha molte similitudini con quello del microcredito, i “Fondi delle Donne” o “Fondi Femministi” si inseriscono proprio come una cerniera tra queste realtà. Essi operano in 40 paesi nel mondo, in partnership con la filantropia istituzionale, assicurando un approccio professionale e un’azione trasformativa di lungo termine. Vicini al movimento e capaci di intercettare le organizzazioni del territorio - anche piccole e poco strutturate - con un elevato potenziale di sviluppo, i Fondi ne comprendono le sfide e facilitano le soluzioni. Essi offrono finanziamenti flessibili e autonomia decisionale su come meglio investire i fondi anche a realtà che, altrimenti, non passerebbero i criteri di selezione della filantropia istituzionale, associando, laddove necessarie, attività di accompagnamento, mentoring e “capacity building””.(red)
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